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  • Sabato 16 gennaio 2016

Il primo editoriale da direttore di Mario Calabresi su Repubblica

Calabresi dice di voler "selezionare" senza aggiungere emozioni o indignazione gratuita e promette di accettare critiche e correzioni

(ANSA/CLAUDIO PERI - ANGELO CARCONI)
(ANSA/CLAUDIO PERI - ANGELO CARCONI)

Oggi su Repubblica è stato pubblicato il primo editoriale del nuovo direttore Mario Calabresi, intitolato “Il mondo che vogliamo raccontare”. Calabresi, che fino a poche settimane fa era il direttore della Stampa, ha sostituito ieri Ezio Mauro, il quale dirigeva Repubblica dal 1996. Nel suo editoriale, Calabresi spiega a grandi linee in che modo vuole impostare il giornale: in uno dei passaggi più significativi, spiega che «non abbiamo bisogno di aggiungere (emozioni, toni apocalittici, indignazione gratuita) ma di selezionare, di offrire a voi lettori ciò che è portatore di senso e stimola la vostra intelligenza e non la vostra pancia, perché alla fine, come diceva Montaigne, “è meglio una testa ben fatta di una testa ben piena”». Repubblica è stata fondata da Eugenio Scalfari – che ne è rimasto editorialista di punta – e ha da poco festeggiato i 40 anni dall’uscita del primo numero.

Due giorni fa avete avuto la fortuna di tornare giovani, di fare un salto indietro nel tempo prendendo in mano la prima copia di Repubblica. Io non l’avevo mai sfogliata perché, come tanti lettori, ero ancora troppo piccolo per frequentare le edicole, ma in quelle pagine ho trovato tutto quello di cui ha bisogno il giornalismo oggi: capacità di scegliere, una scrittura chiara e sintetica e un dialogo diretto con il lettore. È questa la lezione di Eugenio Scalfari per me più preziosa per rispondere alle sfide di un mondo estremamente complesso e difficile da spiegare. Viviamo in un continente in crisi profondissima: la rabbia, il disincanto, un fastidio quasi insanabile verso ogni cosa pubblica hanno preso il sopravvento, vediamo dilagare il populismo e se proviamo ad alzare lo sguardo fuori dai nostri confini assistiamo ai tormenti che lacerano società che ci parevano più solide come la Germania, la Francia o la Spagna.

Non abbiamo ancora risolto la crisi economica, che è oggi mancanza di prospettive e di lavoro, ma nuove emergenze si sono già aggiunte a partire dalla sfida terroristica che ci siamo trovati in casa.
La reazione più sconcertante è la “grande banalizzazione” in cui viviamo, per usare un termine coniato ieri nel suo editoriale di saluto da Ezio Mauro, quel fenomeno che semplifica tutto e spinge ognuno di noi, perfino le teste più accorte e preparate, a essere attratti dalle tesi più congeniali e comode anche se spesso risultano verosimili ma non vere. Il frutto avvelenato di un’epoca di divisioni, di cinismo e di impazienza è aver perso il gusto per le sfumature, aver smarrito la curiosità di scoprire somiglianze oltre che differenze.

Un manicheismo dilagante si è impossessato del nostro mondo che sembra attratto fatalmente dall’idea che esistano solo bianco o nero. L’alternativa però non sono i molti toni di grigio bensì i colori. I mille colori che danno sapore alle nostre vite. Ognuno di noi deve recuperarli e tenerli di fronte agli occhi ogni giorno, antidoto al veleno dell’apatia e viatico per la speranza. È qui che il giornalismo può fare la differenza e ritrovare una missione ma perché ciò accada deve essere capace di pazienza e fatica, strumenti necessari e indispensabili per leggere la complessità.

Un giornale come Repubblica deve avere ogni giorno l’ambizione di camminare accanto al suo lettore per aiutarlo a distinguere i segnali più importanti nel rumore di fondo in cui viviamo immersi e di offrire contesti che permettano di leggere con chiarezza gli eventi quotidiani. Nel caos informativo di oggi come nell’Italia sbandante di quel primo giornale di quarant’anni fa non abbiamo bisogno di aggiungere (emozioni, toni apocalittici, indignazione gratuita) ma di selezionare, di offrire a voi lettori ciò che è portatore di senso e stimola la vostra intelligenza e non la vostra pancia, perché alla fine, come diceva Montaigne, “è meglio una testa ben fatta di una testa ben piena”.

Così se dobbiamo indignarci per i dipendenti pubblici assenteisti, infedeli o corrotti abbiamo anche il dovere di sapere che accanto a loro ci sono migliaia di persone che tengono in piedi le Istituzioni con passione e onestà. Dobbiamo sapere che è pieno di sindaci che si alzano all’alba e provano a cambiare le cose e la sera a casa immaginano un futuro per il loro Comune. Parliamo della scuola allo sfascio ma non rendiamo sufficiente onore alla maggioranza degli insegnanti che in questi anni ha trovato il modo di tenere in vita l’istruzione italiana, con creatività, talento e coraggio.

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