• Mondo
  • Domenica 10 gennaio 2016

Cinque cose sbagliate sull’economia cinese

La borsa cinese c'entra poco con l'economia reale e non è vero che la crescita dell'economia della Cina è trainata dalle esportazioni a basso costo, per esempio

di Eswar Prasad - Washington Post

(AP Photo/Ng Han Guan)
(AP Photo/Ng Han Guan)

Quando la borsa cinese crolla, come ha fatto questa settimana, i mercati mondiali accusano il colpo. Ma quanto dobbiamo essere davvero preoccupati per l’economia cinese? È la seconda al mondo, ma rimane ancora oggi opaca e poco compresa. Ecco cinque errori che si fanno spesso quando se ne parla.

1. Il crollo della borsa è il riflesso di un’economia in crisi
Il crollo della borsa cinese di questi giorni è stato collegato alla diffusione di dati statistici che mostravano un calo superiore al previsto nel settore manifatturiero e più in generale alla situazione difficile che sta attraversando l’economia del paese. È vero che la crescita economica in Cina sta diminuendo, ma l’andamento della borsa cinese non ci dice più di tanto sull’economia reale. Il valore totale di tutte le azioni scambiate, ad esempio, è circa un terzo del PIL del paese, mentre nei paesi sviluppati è di solito pari al 100 per cento o anche di più.

Inoltre è vero che dal picco del giugno 2015 la borsa cinese ha perso il 40 per cento del suo valore, ma il picco era stato raggiunto grazie a una bolla finanziaria dei mesi precedenti, durante la quale il governo ha fatto di tutto per spingere i cinesi a investire in borsa. Il risultato è che adesso gli indici cinesi sono più o meno dove sarebbero stati se non ci fosse stato il picco promosso dal governo.

2. L’economia cinese è trainata soprattutto dalle esportazioni a basso costo
È vero che la Cina è un paese esportatore di prodotti a basso costo, ma per sapere se questo è davvero il motore trainante della sua crescita, dobbiamo sottrarre dai guadagni che derivano dalle esportazioni le spese per importare in Cina materie prime e prodotti intermedi necessari a creare il prodotto finito. Alcuni ricercatori, ad esempio, hanno scoperto che soltanto il 4 per cento del valore di un iPhone “made in China” deriva davvero dalla manifattura cinese. La gran parte deriva dai componenti ad alta tecnologia importati da Germania, Giappone e Corea del Sud. Componenti che, in Cina, vengono soltanto assemblati.

Applicando questo tipo di analisi a tutta la produzione cinese si scopre che le esportazioni nette, cioè esportazioni meno importazioni, hanno contribuito in maniera modesta alla crescita dell’economia del paese, almeno nell’ultimo decennio. Nello stesso periodo, il settore trainante è stato l’investimento in costruzioni, fabbriche e infrastrutture come porti e aeroporti, che ha generato più di metà della crescita. Inoltre, la Cina non è più un paese a basso costo del lavoro e gli stipendi si stanno alzando molto più velocemente di quelli di paesi vicino come Vietnam e Bangladesh. La manifattura cinese si sta lentamente spostando dalla produzione di beni a basso costo e a basso contenuto tecnologico a quella di prodotti più sofisticati.

3. La Cina manipola il cambio della sua moneta

È un’accusa fatta soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Europa. In sostanza, la Cina è accusata di tenere artificialmente basso il valore della sua moneta –lo  yuan o renminbi – in modo da rendere le sue esportazioni più competitive. Il governo cinese ha certamente adottato questa strategia in passato, ma di recente ha lasciato la sua moneta sempre più libera di fluttuare in base alla volontà dei mercati, cioè ha iniziato a liberalizzarne il cambio. Questo cambiamento di strategia, però, è stato fatto in maniera astuta, nel momento in cui più conveniva alla Cina. Il cambio sta venendo liberalizzato proprio in questi mesi di crisi della borsa, con il risultato che invece che apprezzarsi lo yuan è ulteriormente sceso di valore rispetto al dollaro.

4. La Cina trucca i conti per far sembrare la sua economia più forte

Molti analisti considerano le statistiche sul PIL cinese semplicemente frutto della fantasia dei burocrati del Partito Comunista. I tassi di crescita sono spesso, e in maniera sospetta, molto simili agli obiettivi proclamati dal governo. Secondo alcuni economisti, il vero tasso di crescita del paese è intorno al 3 per cento, meno della metà del 7 mostrato dai dati ufficiali.

È possibile che i dati trimestrali sull’economia cinese siano manipolati, ma quando si esaminano i numeri più a lungo termine, come i dati annuali, è probabile che ci si trovi davanti a una rappresentazione più o meno fedele della realtà. Per un paese come la Cina è impossibile mantenere indefinitamente un tasso di crescita del 10 per cento, ma con stimoli monetari e politiche fiscali è possibile mantenere per qualche anno la crescita tra il 6 e il 7 per cento, ed è quello che il governo cinese ha fatto negli ultimi anni. Anche questi tassi di crescita non potranno essere mantenuti a lungo, a meno che la Cina non si apra a una serie di riforme.

5. Il renminbi è una minaccia per il dollaro
Il dollaro è considerato la moneta più sicura al mondo e miliardi di dollari sono utilizzati in tutto il mondo come riserve valutarie. Lo scorso novembre, il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato che il renminbi entrerà ufficialmente a far parte delle riserve valutarie del fondo, insieme a dollaro, euro, sterlina e yen giapponese. Si tratta di un riconoscimento importante della stabilità raggiunta dalla moneta cinese e dall’economia che la sostiene. Secondo alcuni, questo è il primo passo lungo il cammino che vedrà la fine del dollaro come moneta di riferimento mondiale.

Forse, ma ci vorrà come minimo un bel po’ di tempo. Oggi circa l’1 per cento delle riserve valutarie in moneta estera sono detenute sotto forma di renminbi. Due terzi del totale sono detenute in dollari, una frazione che dall’inizio della crisi cinese è persino aumentata. Perché la moneta cinese rimpiazzi il dollaro, la Cina dovrà godere della fiducia degli investitori in maniera molto superiore a quella di cui gode ora. E questo non si otterrà solo con interventi economici. Serviranno anche riforme politiche, di cui però oggi non c’è ancora traccia.

©Washington Post 2015