Le aziende italiane che fanno affari in Corea del Nord

Sono molto poche, per motivi comprensibili: ma quelle poche hanno dietro storie interessanti, raccontate da Giulia Pompili sul Foglio

(AP Photo/Wong Maye-E)
(AP Photo/Wong Maye-E)

La giornalista Giulia Pompili ha raccontato sul Foglio la storia di alcune aziende italiane che hanno interessi commerciali in Corea del Nord, uno dei paesi più chiusi e autoritari al mondo e dal 1948 guidato da una dittatura familiare a stampo comunista. Pompili spiega che le aziende italiane che fanno affari in Corea del Nord sono molto poche, soprattutto a causa della chiusura del paese – sulla stampa internazionale si parla di Corea del Nord solo in relazione a notizie preoccupanti, come nel caso del test nucleare compiuto ai primi di gennaio – e che i rapporti tra le aziende e il governo nordcoreano sono spesso problematici. Pompili racconta ad esempio la storia di un’azienda alimentare italiana, la Sa. Ges. Sam., che alcuni anni fa ha aperto il primo ristorante italiano a Pyongyang in collaborazione col governo, e che nel 2013 finì su tutti i giornali per aver servito nel proprio ristorante la Coca-Cola (che non viene commerciata per via dell’embargo degli Stati Uniti in Corea del Nord, ancora in vigore). O ancora la storia della Legea, un’azienda di Pompei che per quattro anni è stato lo sponsor tecnico della nazionale di calcio nordcoreana, anche durante la sua partecipazione ai Mondiali di calcio del 2010.

Laura Galassi è l’amministratrice della Sa.Ges.Sam., un’azienda di Pesaro che si occupa di servizi alle imprese agricole e di smaltimento di rifiuti industriali. Il padre di Galassi lavora con la Corea del nord da almeno quindici anni, fornendo agli allevatori nordcoreani i macchinari per l’allevamento di suini, oche e polli. “Poi, nel 2008, il governo ci ha chiesto di aprire un ristorante italiano a Pyongyang, il primo in assoluto”, spiega al Foglio Laura Galassi, “abbiamo costituito con la controparte nordcoreana una joint venture che si chiama CorItalia, e abbiamo iniziato questa avventura”. Uno scambio culturale a tutti gli effetti: il logo di CorItalia, per esempio, è stato disegnato da un architetto nordcoreano che ha studiato a Roma – per ogni ciclo universitario, Pyongyang manda dieci studenti a completare gli studi a Valle Giulia. I pizzaioli del ristorante di CorItalia hanno imparato a fare la pizza a Pesaro. Ma quando uno vuole aprire un ristorante italiano nel paese più isolato del mondo, il primo problema, naturalmente, sono le materie prime: “Abbiamo portato a Pyongyang tutto quello che ci serviva: farina, pelati, prosciutto. Serviamo soprattutto pizza, che è facile da fare con pochi ingredienti, ma anche qualche tipo di pasta e alcuni piatti coreani. Nel ristorante perfino l’arredamento è completamente italiano”.

Come spesso si usa in Corea del nord, al piano sottostante c’è uno showroom dove si possono acquistare prodotti italiani: “Dovevamo capire cosa potesse piacere ai nordcoreani, ma vendiamo molti prodotti alimentari come caffè, biscotti, cioccolato. E devo dire qualcosa si sta diffondendo, ma bisogna sempre prima comprenderne la cultura. Per esempio, sull’abbigliamento, all’inizio abbiamo sbagliato: cercavamo di vendere le scarpe che piacevano a noi, ma che non erano adatte alla vita a Pyongyang. Inoltre i coreani hanno i piedi molto piccoli ed era difficile trovare le calzature della misura giusta”. Ma chi è che va a mangiare in un ristorante italiano a Pyongyang? “All’inizio la clientela era solo internazionale: delegazioni diplomatiche, ufficiali”, dice Galassi. Poi man mano abbiamo visto il ristorante riempirsi anche di cittadini”.

Nell’agosto del 2013 su tutti i giornali internazionali uscì la notizia che la Coca-Cola era sbarcata in Corea del nord. Ne era prova un video girato in un ristorante italiano di Pyongyang dove si vedevano chiaramente delle lattine di Coca sui tavoli. La Coca-Cola negò l’ingresso nel mercato, ma non era esattamente così: “Sì, eravamo stati noi a portare le lattine di Coca-Cola al ristorante. Avevamo bisogno di capire quali fossero i gusti dei nostri clienti, e devo dire che apprezzarono la novità”. Ma niente di illegale: tutti i container che vanno e vengono dalla Corea del nord sono controllati, soprattutto prima di lasciare l’Italia. Perché non è facile fare affari con un paese il cui import è limitato dall’embargo sui beni di lusso: “In Europa ogni paese ha la sua lista di prodotti considerati ‘di lusso’. Per esempio per noi il vino di qualità è un prodotto di lusso, e infatti riusciamo a portare a Pyongyang solo quello che in Italia viene considerato ‘da cucina’. Per gli alcolici vale lo stesso discorso, e anche per i prodotti per il make-up. Ma per la Francia il discorso è diverso, loro hanno una fascia di vini esportabili e anche il make-up non è ‘bene di lusso’”. Galassi, che visita la Corea del nord circa una volta l’anno, ci spiega che la sua azienda guadagna ben poco dal ristorante, ma l’attività è comunque positiva: “Ci sono dei problemi di comunicazione, in giorni complicati come questi, per esempio. Internet non è diffuso nel paese e parlare al telefono è difficile. Ma tutto sommato è una bella esperienza”.

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