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  • Domenica 27 dicembre 2015

Le persone rapite dalla Corea del Nord

Il New Yorker ha raccontato la storia di una delle più improbabili operazioni di spionaggio al mondo, che ha un lieto fine (all'incirca)

Kaoru Hasuike e sua moglie, Yukiko Okudo. (AP Photo/Shizuo Kambayashi)
Kaoru Hasuike e sua moglie, Yukiko Okudo. (AP Photo/Shizuo Kambayashi)

La Corea del Nord è una delle ultime dittature totalitarie rimaste al mondo. Il regime nordcoreano controlla ogni aspetto della vita dei suoi cittadini e la propaganda statale ha creato una specie di realtà alternativa che ricorda il romanzo “1984” di George Orwell. Esecuzioni, torture e lunghi periodi di prigionia nei campi di rieducazione sono cose che succedono di frequente a chi non rispetta le regole del regime creato dalla dinastia dei Kim: il fondatore, Kim Il-sung, suo figlio, Kim Jong-il e il nipote e attuale dittatore, Kim Jong-un. In un paese del genere, dove il fondatore è stato proclamato “presidente eterno”, poche pratiche appaiono più improbabili della campagna di rapimenti internazionali promossa dal regime e arrivata al suo culmine negli anni Settanta. Lo scrittore e giornalista Robert Boynton ha raccontato sul New Yorker la storia di queste operazioni e delle persone che loro malgrado ne sono state coinvolte.

Tutto cominciò nel corso della guerra di Corea, quando tra il 1950 e il 1953 la Corea del Nord – appoggiata dalla Cina – si scontrò contro quella del Sud, alleata degli Stati Uniti e difesa da una coalizione promossa dalle Nazioni Unite. L’esercito nordcoreano aveva iniziato la guerra invadendo il sud e riuscendo a occupare molte città. Molto presto nei territori occupati cominciarono a comparire pattuglie di soldati che avevano liste di nomi di civili: professori, tecnici specializzati, politici e amministratori locali. Il loro compito era catturare le persone segnate sulle liste e portarle in Corea del Nord.

L’idea era quella di danneggiare il sud privandolo della sua classe intellettuale e nel contempo facilitare la ripresa economica del nord grazie allo sfruttamento delle persone più talentuose. Negli anni precedenti, le pratiche brutali adottate dal regime nordcoreano avevano causato la fuga di migliaia di persone, soprattutto tra i gruppi sociali più istruiti. Kim Il-sung aveva elaborato il piano nel 1946, quando era ancora un leader della guerriglia comunista che aveva combattuto i giapponesi nel corso della Seconda guerra mondiale. Circa 80 mila persone furono rapite durante la guerra, e nonostante fossero in gran parte civili il governo nordcoreano decise di classificarli come prigionieri di guerra.

Per i primi anni dopo l’armistizio, la campagna di rapimenti proseguì pigramente: senza più un esercito che occupava il suolo di una nazione nemica, i nordcoreani avevano poche occasioni di catturare nuovi prigionieri. Negli anni Cinquanta e Sessanta, i sudcoreani rapiti furono soprattutto pescatori trasportati oltre il confine dalle correnti. Le loro competenze non erano particolarmente utili al regime, ma i loro documenti potevano essere usati per aiutare l’infiltrazione di spie nella Corea del Sud. Nel 1976 i leader nordcoreani decisero di rafforzare la campagna di rapimenti: la Corea del Nord aveva più che mai bisogno di tecnici ed esperti che normalmente non si trovano sulle barche da pesca. Inoltre, il regime desiderava inviare spie anche in altri paesi ma aveva bisogno di qualcuno che insegnasse loro la lingua e i costumi delle regioni dove si sarebbero trovati ad operare. Il regime decise quindi che le squadre di rapitori avrebbero dovuto essere inviate all’estero.

Boynton racconta che il 31 luglio del 1978 Kaoru Hasuike e la sua ragazza, Yukiko Okudo, si trovavano sulla spiaggia di Kashiwazaki, sulla costa occidentale del Giappone, quando quattro uomini si avvicinarono e uno di loro chiese a Hasuike da accendere. Prima che Hasuike avesse il tempo di estrarre l’accendino, i quattro gli saltarono addosso, legandogli le mani e mettendogli un sacco sulla testa. La coppia fu trasportata su una piccola imbarcazione che i quattro avevano nascosto poco lontano e poi a bordo di una barca più grande che si trovava a largo della costa. I rapitori dissero a Hasuike che era stato rapito dal governo della Corea del Nord per addestrare le sue spie. Gli dissero che lui stesso avrebbe potuto diventare una spia e ottenere una posizione importante nel nuovo regime una volta che il Giappone fosse stato conquistato. Gli dissero anche che la sua ragazza era stata riportata in Giappone. Prima di essere rapito, Hasuike aveva deciso di chiederle di sposarlo non appena avesse terminato di laurearsi in legge.

Hasuike trascorse i mesi successivi in un piccolo appartamento, costantemente sotto sorveglianza. Fu costretto a imparare il coreano e trascorse lunghe ore ai corsi di indottrinamento all’ideologia del regime, la “Juche” o autosufficienza. All’inizio tentò di protestare, dicendo che il rapimento era un crimine contro l’umanità e che i suoi rapitori avrebbero dovuto liberarlo immediatamente. Gli fu risposto che continuare a lamentarsi era il modo migliore per farsi uccidere. Col tempo, Hasuike fu costretto ad adattarsi alla sua nuova vita. Dopo 18 mesi i suoi rapitori gli rivelarono che la sua fidanzata si trovava in Corea del Nord insieme a lui. La separazione non era altro che un trucco per cercare di rimuovere i suoi legami emotivi con il Giappone. Hasuike e Okudo di sposarono pochi giorni dopo, in una cerimonia officiata da un funzionario nordcoreano e con gli auguri del leader supremo Kim Il-sung.

Dopo il matrimonio la coppia fu trasferita in un complesso circondato di filo spinato. Gli fu assegnata una casa spaziosa e più cibo e comodità di quante ne avesse a disposizione l’abitante medio della Corea del Nord. Ma non era possibile uscire dal complesso e soltanto a militari e funzionari era consentito l’ingresso. Hasuike ha raccontato a Boynton che il complesso era simile a una “gabbia dorata”. I loro vicini e gli altri abitanti del complesso erano sudcoreani rapiti negli anni passati o alcuni dei pochi nordcoreani esperti di lingue straniere. Il loro ruolo era tradurre articoli della stampa estera e addestrare alla lingua e ai costumi dei loro paesi di provenienza le spie nordcoreane. Il complesso, in altre parole, era uno dei pochi luoghi in tutta la Corea del Nord dove arrivava un flusso costante di notizie dal mondo esterno e per questo il regime lo aveva reso completamente chiuso.

Nel corso degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta il nuovo programma di rapimenti internazionali portò alla cattura di cittadini malesi, thailandesi, rumeni, libanesi, francesi e olandesi, oltre ovviamente a sudcoreani e giapponesi. In tutto si calcola che, dalla fine della guerra nel 1953, circa 3.800 sudcoreani furono rapiti. Secondo il governo della Corea del Sud, circa 500 si trovano ancora oltre il confine. Molti, come un artista rumeno, furono rapiti con la promessa di un’esibizione in Corea del Nord. Altri furono imbarcati con l’inganno a bordo di aerei. Ma il metodo preferito dagli agenti nordcoreani rimase quello più semplice: un assalto nella notte, un cappuccio calato in testa e una fuga in mare a bordo di una piccola imbarcazione. Una famosa attrice sudcoreana e suo marito, un regista, furono rapiti proprio in questa maniera, per contribuire allo sviluppo dell’industria cinematografica nordcoreana.

Persino il regime nordcoreano, di cui spesso si parla anche per le sue idee crudeli e allo stesso tempo strampalate, si rese conto che le persone rapite in questa maniera non solo erano inutilizzabili come spie, ma che gli agenti segreti che avrebbero dovuto addestrare difficilmente si sarebbero potuti spacciare per cittadini giapponesi o thailandesi: il loro accento li avrebbe di sicuro traditi. Il regime iniziò così a mettere gli occhi sui figli delle persone rapite. Nati, cresciuti e indottrinati in Corea del Nord erano di certo meno inclini a disertare rispetto ai loro genitori e la loro padronanza della loro lingua madre sarebbe stata di sicuro superiore rispetto a quella di qualunque altro nordcoreano.

Gli obiettivi più ambiti di questo programma di “allevamento di spie” erano i bianchi. All’epoca in Corea del Sud i figli di unioni miste tra militari americani e coreani o giapponesi erano piuttosto frequenti, mentre in Corea del Nord era un fenomeno sconosciuto. Una spia nordcoreana con tratti somatici meticci e una perfetta padronanza di inglese, giapponese e coreano era una spia perfetta e quasi impossibile da individuare. Charles Jenkins, uno dei pochissimi militari americani ad aver mai disertato verso la Corea del Nord, si vide assegnare dal regime una ragazza giapponese a cui avrebbe dovuto insegnare l’inglese. Jenkins aveva disertato nel 1965, stressato dalla routine che gli imponeva il pattugliamento del confine tra i due paesi. Da allora era diventato una specie di celebrità per la propaganda nordcoreana.

La ragazza, Hitomi Soga, era stata rapita poco tempo prima in Giappone, nell’estate del 1978. I due divennero amici e presto i funzionari nordcoreani iniziarono a fare pressioni affinché si sposassero. Jenkins non perse tempo e alla fine Soga accettò la sua proposta. Dal matrimonio nacquero due figlie, Mika e Brinda. Anche Hasuike e Okudo ebbero due figli, un maschio e una femmina. La politica del regime nei confronti di questi bambini era severa e brutale. Dopo i primi anni venivano portati in scuole speciali per ricevere l’indottrinamento all’ideologia del regime. I genitori potevano vederli per circa tre mesi l’anno, durante le vacanze estive e quelle invernali. Mentre si trovavano a scuola non era possibile andarli a trovare e nemmeno telefonargli.

All’inizio della campagna di rapimenti in Giappone, nel 1977, il governo impiegò mesi a capire cosa stava succedendo. I rapimenti erano poco numerosi e distanziati nel tempo. Anche quando le prime prove cominciarono ad affiorare – come il ritrovamento di imbarcazioni con equipaggiamenti abbandonati e vittime dei rapimenti riuscite a fuggire – il governo preferì mantenere un basso profilo. Il Giappone non aveva un esercito con cui rispondere alla Corea del Nord e non aveva mezzi diplomatici per esercitare pressione sul regime nordcoreano. Rivelare i rapimenti, pensavano i leader giapponesi dell’epoca, avrebbe potuto mettere in pericolo i prigionieri della Corea del Nord.

Finalmente nel 2002, dopo un viaggio in Corea del Nord, il primo ministro giapponese Juichiro Koizumi riuscì a fare ammettere alla Corea del Nord il programma di rapimenti e ne annunciò ufficialmente l’esistenza anche al popolo giapponese. Il governo giapponese ha detto che in tutto 17 giapponesi sono stati rapiti, mentre quello della Corea del Nord ha ammesso soltanto 13 rapimenti. Alcuni sospettano che i numeri in realtà siano molto più alti. Cinque dei giapponesi sopravvissuti e i loro cinque figli sono tutti ritornati in Giappone nel corso del 2004. Oggi Jenkins e sua moglie Soga, Hasuike e sua moglie Okudo sono tutti tornati a vivere in Giappone con i loro figli.