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  • Venerdì 18 dicembre 2015

Il paese dell’anno secondo l’Economist

È il Myanmar, che è passato in modo pacifico da una dittatura militare alle prime elezioni libere dal 1962, contribuendo così a "rendere il mondo un posto migliore"

(Lauren DeCicca/Getty Images)
(Lauren DeCicca/Getty Images)

L’Economist ha scelto il Myanmar come paese dell’anno del 2015, per via degli straordinari progressi politici che ha compiuto e che lo hanno fatto passare in modo pacifico dalla dittatura a una situazione quasi democratica, che quest’anno ha permesso lo svolgimento delle prime elezioni libere nel paese e la vittoria del partito di Aung San Suu Kyi, ex dissidente, storica leader dell’opposizione alla dittatura e premio Nobel per la pace. Questo è il terzo anno in cui l’Economist sceglie il “paese dell’anno“, facendo qualcosa di simile a quello che la rivista statunitense Time fa dal 1927 con “la persona dell’anno“. Nel 2013 l’Economist scelse l’Uruguay e nel 2014 la Tunisia: la scelta dell’Economist non è fatta in base a classifiche, dati oggettivi o parametri economici, ma in base all’idea che il Myanmar è riuscito a dare di sé e a un insieme di fattori diversi.

L’Economist ha spiegato di aver deciso così per via dei grandi progressi fatti dal paese negli ultimi anni: cinque anni fa in Myanmar c’era una dittatura militare (al potere dal 1962) in cui era addirittura vietato mostrare fotografie raffiguranti Aung San Suu Kyi, che è stata detenuta agli arresti domiciliari fino al novembre 2010. Nel 2011 la dittatura militare fu sostituita – dopo alcuni anni in cui fece piccole aperture democratiche – da un governo misto, composto sia da civili che da militari. Nel 2012 si tennero le prime elezioni parlamentari parziali a cui partecipò anche la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito di Suu Kyi. Nel novembre 2015 ci sono state delle elezioni parlamentari generali e il NLD ha ottenuto la maggioranza al Parlamento, prendendo il 77 per cento dei voti.

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Aung San Suu Kyi (Lauren DeCicca/Getty Images)

In Myanmar, oggi, l’esercito continua ad avere molti poteri, ma si sta mostrando disponibile a collaborare con il NLD. L’Economist spiega poi che i problemi del Myanmar sono tutt’altro che risolti – molte cose potrebbero ancora andare male e alcune minoranze etniche, tra cui quella dei rohingya, continuano a essere trattate in modo «vergognoso» – ma «la transizione del paese verso qualcosa che inizia ad assomigliare a una democrazia è avvenuta in modo più veloce di come chiunque avrebbe osato prevedere».

Oltre a spiegare perché ha vinto il Myanmar, la redazione dell’Economist ha anche spiegato quali sono i paesi di cui più si è parlato nel 2015, e perché non sono stati scelti. Per prima cosa l’Economist ha parlato di Russia e di Stato Islamico:

Se il nostro premio “paese dell’anno” venisse assegnato al paese che ha ottenuto più titoli di giornale, sarebbe difficile fare meglio della Russa. Ma non vogliamo premiare l’avventurismo militare, le repressioni interne e la distruzione di ottimo formaggio straniero [con riferimento al cibo europeo distrutto in Russia]. Vladimir Putin dovrà accontentarsi del premio cinese per la pace che ha vinto nel 2011. Allo stesso modo lo Stato Islamico, nonostante si sia fatto strada tra le notizie più di molti altri paesi, è escluso perché è un abominio e non una nazione.

L’Economist ha spiegato di aver preferito premiare uno stato che ha provato a “rendere il mondo migliore”, scrivendo che, per fortuna, ce n’erano alcuni tra cui scegliere: gli Stati Uniti per aver legalizzato i matrimoni gay, riaperto i rapporti diplomatici con Cuba e ottenuto l’accordo sul nucleare con l’Iran; la Cina per aver reso meno dura “la sua crudele politica del figlio unico“; la Nigeria per essere riuscita per la prima volta a fare un’elezione in cui il presidente in carica (Goodluck Jonathan) ha perso a un ballottaggio e ha lasciato il suo posto in modo pacifico.

La redazione dell’Economist ha spiegato di aver preso in considerazione anche alcuni paesi dell’America Latina, in cui il populismo di sinistra noto come “marea rossa” sembra essere entrato in crisi, lasciando il posto a governi che l’Economist reputa più solidi e affidabili. Tra gli stati presi in considerazione ci sono il Venezuela (in cui alle ultime elezioni l’opposizione ha vinto due terzi dei seggi e sembra possa frenare il “marcio, incapace e autoritario regime” di Nicolás Maduro), l’Argentina (in cui il nuovo presidente Mauricio Macri dovrà provare a porre rimedio agli “errori economici e alla sovversione delle istituzioni democratiche” messi in atto dall’ex presidente Kirchner), il Guatemala (in cui il comico Jimmy Morales ha vinto le elezioni candidandosi con il motto “non sono un ladro e non sono corrotto”) e la Colombia (che sembra vicina a firmare un accordo per porre fine alla guerriglia interna con le FARC).

L’Economist scrive di avere anche apprezzato il modo in cui, in Europa, gli elettori francesi sono riusciti – nel secondo turno delle elezioni regionali – a “mandare all’aria” il “populismo xenofobo di Marine Le Pen” e il modo in cui Germania e Svezia hanno accolto molti rifugiati siriani. Gli ultimi apprezzamenti dell’Economist sono per l’Irlanda, che è riuscita a crescere del 7 per cento nell’ultimo anno, e poi il Libano e la Giordania, due paesi che «hanno accolto molti più rifugiati siriani» di ogni ricca nazione europea. Il problema è però che né in Libano né in Giordania i rifugiati siriani hanno il diritto di lavorare e inoltre, scrive l’Economist: «la Giordania potrebbe essere un po’ più gentile con la sua popolazione di rifugiati palestinesi e il Libano è governato così male che la spazzatura si sta accumulando nelle strade».