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  • Mercoledì 9 dicembre 2015

Che succede ora in Venezuela?

Il partito di Chávez e Maduro ha straperso dopo 17 anni ma ha ancora diversi strumenti per limitare l'opposizione, con cui sembra non voler collaborare

Il Parlamento nazionale venezuelano a Caracas, fotografato il 7 dicembre 2015 (LUIS ROBAYO/AFP/Getty Images)
Il Parlamento nazionale venezuelano a Caracas, fotografato il 7 dicembre 2015 (LUIS ROBAYO/AFP/Getty Images)

In Venezuela sono stati diffusi i risultati ufficiali delle elezioni parlamentari del 6 dicembre. I risultati ufficiali hanno confermato quelli preliminari: la coalizione che riunisce tutti i partiti di opposizione ha ottenuto 112 seggi su 167, ottenendo la cosiddetta “supermaggioranza”, mentre il Partito socialista unificato del Venezuela (PSUV), quello del presidente in carica Nicolas Maduro – e prima ancora di Hugo Chávez, che lo aveva fondato – ne ha ottenuti solo 55. È la prima volta da 17 anni che il partito di Chávez e Maduro non ha la maggioranza in Parlamento: dato che il Venezuela è una repubblica presidenziale il governo non cadrà, ma in molti hanno scritto che la sconfitta di Maduro – che nel frattempo ha annunciato un rimpasto di governo – potrebbe compromettere la sua carriera politica. Altri ancora, però, hanno fatto notare che Maduro – da anni accusato di aver preso misure economiche catastrofiche, oltre che di governare in modo duramente autoritario – ha ancora molti strumenti per “bilanciare” la sconfitta e che difficilmente cambierà radicalmente le proprie politiche.

Quando nel gennaio 2016 si insedierà il nuovo Parlamento, la Mesa de la Unidad Democrática – una coalizione che riunisce più di dieci partiti di centro, centrosinistra e centrodestra – grazie alla “supermaggioranza” potrà approvare leggi, promuovere referendum e modificare la Costituzione, e rendere così la vita molto complicata a Maduro. Il problema però è che nel marzo del 2015 Maduro ha ottenuto dal Parlamento la possibilità di governare per decreto per nove mesi, cioè senza far passare le leggi dal Parlamento. Il giornalista venezuelano Raúl Stolk ha scritto sul New York Times che Maduro potrebbe fare approvare una legge simile a quella di marzo prima che si insedino i nuovi parlamentari.

Stolk ha aggiunto che in quel caso il nuovo Parlamento potrebbe provare ad annullare la legge, ma che in quel caso il governo potrebbe rivolgersi al Tribunale Supremo del Venezuela, una specie di Corte Costituzionale che secondo il giornale online venezuelano Prodavinci «ha l’ultima parola» su leggi e riforme. Il Tribunale Supremo è saldamente in mano al partito di Maduro: da quando esiste non ha mai contraddetto una decisione della presidenza, e in ottobre 13 giudici su 32 hanno chiesto contemporaneamente il prepensionamento. Una volta nominati dal Parlamento – cosa che potrebbe avvenire ancora con questi parlamentari e non con quelli appena eletti – rimarranno in carica 12 anni. El País però fa notare che in teoria la “supermaggioranza” permette anche di far decadere i giudici del Tribunale Supremo, oltre ai membri di altre istituzioni controllate dal partito di Maduro.

Ci sono molti dubbi inoltre sul fatto che Maduro e il Partito socialista vadano incontro all’opposizione, stando ai toni utilizzati nei giorni successivi alle elezioni. Nel corso di un’intervista televisiva trasmessa martedì 8, Maduro ha nuovamente attribuito la sconfitta a una presunta «guerra economica», uno scontro sotterraneo in cui gli Stati Uniti si sarebbero alleati alle élite del paese per distruggerlo: è l’argomento che Maduro usa fin dalla sua elezione per spiegare i problemi del Venezuela.

Durante l’intervista Maduro ha detto che non permetterà che vengano approvate amnistie, cosa che potrebbe scarcerare diversi prigionieri politici fra cui Leopoldo Lopez, uno dei capi dell’opposizione venezuelana e condannato a settembre a quasi 14 anni di carcere per aver guidato le proteste di piazza del 2014. Maduro ha anche aggiunto: «Le forze contro-rivoluzionarie vogliono prendere il potere in questo paese: non glielo permetteremo!». Scrive inoltre il Wall Street Journal:

Jorge Rodríguez, il responsabile della campagna del Partito socialista, a chi gli chiedeva cos’avesse imparato dal risultato delle elezioni ha risposto che mentre il Partito socialista ha portato avanti una campagna elettorale «gli altri hanno dichiarato guerra». Secondo Moises Naim, ex ministro venezuelano del Commercio, l’ala estrema del Partito socialista potrebbe inoltre decidere che il governo ha perso le elezioni perché non ha fatto cose sufficientemente socialiste.

Il 9 dicembre l’account Twitter del partito socialista venezuelano ha twittato una lunga citazione di Iosif Stalin, con immagini di Lenin e Stalin sullo sfondo.

Le elezioni legislative di domenica 6 dicembre sono state interpretate come una specie di voto di fiducia del popolo sul governo e sul suo presidente, da tempo in grande difficoltà a causa della grave crisi economica, dell’inflazione, della diffusione della corruzione, dell’insicurezza dei cittadini e della persecuzione nei confronti del leader dell’opposizione.

In Venezuela è stato stimato che l’inflazione si aggira attorno al 200 per cento, e secondo il Fondo Monetario Internazionale a fine 2015 l’economia si sarà contratta del 10 per cento rispetto allo scorso anno. La situazione di Maduro – che è presidente dal 2013 e finirà il mandato nel 2019 – era complicata anche per altre questioni: a novembre due suoi familiari sono stati arrestati con l’accusa di essere coinvolti nel contrabbando di 800 chilogrammi di cocaina negli Stati Uniti. A novembre il principale partito di opposizione ha denunciato Maduro per crimini contro l’umanità davanti alla Corte penale internazionale dell’Aia, per la dura repressione delle proteste antichaviste del febbraio 2014. Il documento fa riferimento ad attacchi “sistematici” per indebolire “il dissenso o la semplice critica al governo”; si parla di “omicidi, torture, detenzioni illegali, persecuzioni” e di “trattamenti inumani”.