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  • Martedì 1 dicembre 2015

Omosessuali, eterosessuali, serie tv e barboncini

Un capitolo del nuovo libro di Dan Savage, autore di una famosa rubrica di consigli su sesso e vita di coppia

La copertina del libro
La copertina del libro

Baldini & Castoldi ha pubblicato il libro American Savage. L’amore rende liberi di Dan Savage, giornalista statunitense autore della rubrica di consigli su sesso e vita di coppia Savage love, tradotta in moltissimi paesi e pubblicata in Italia sul sito di Internazionale. Savage è anche promotore insieme al marito Terry Miller del progetto It gets better, che aiuta gli adolescenti che hanno subìto episodi di bullismo omofobo.

Nel libro, tradotto in italiano da Fabio Viola, Savage racconta le sue esperienze personali per affrontare svariati temi – l’amore, il sesso, la religione, la politica nel Nord America – con argomentazioni brillanti, ironia e un linguaggio diretto che i lettori della sua rubrica conoscono bene, finendo per ricondurre sempre il discorso al tema più generale della libertà negli Stati Uniti.

Questo è uno dei capitoli del libro.

***

A mio padre piacevano le serie poliziesche in tv.
Lui era un poliziotto, un detective della omicidi che negli anni Settanta era assegnato alla losca zona gay di Chicago. E come molti poliziotti, ciò che più gli piaceva delle serie poliziesche era trovare gli errori. C’era un solo programma televisivo che secondo mio padre era abbastanza azzeccato. Si chiamava Barney Miller e venne trasmesso sulla ABC dal 1975, quando avevo undici anni, al 1982, quando ne avevo diciassette. Gli agenti di Barney Miller non erano poliziotti picchiatori. Erano detective, come mio padre. Avevano lavori noiosi, come quello di mio padre – tutti scartoffie e pessimo caffè, niente inseguimenti in auto né sparatorie. E i detective erano di mezza età e fuori forma, come mio padre. E come mio padre, i detective di Barney Miller pattugliavano una losca zona gay, il Greenwich Village a New York.
In Barney Miller c’era un personaggio gay ricorrente, uno dei primi della televisione. Era piuttosto frocesco e andava in giro con una borsetta e un barboncino. A volte, quando quel personaggio gay appariva in un episodio, e papà e io stavamo guardando la televisione insieme, lui restava in silenzio finché la sua scena non era finita. A mio padre piacevano anche i film polizieschi. E mi ricordo di averne visto uno in particolare con lui – I ragazzi del coro, del 1977 – nel salotto di casa nostra, appena il film era arrivato in home video. I poliziotti de I ragazzi del coro pattugliavano la losca zona gay di Los Angeles. E in una scena uno degli uomini – dei poliziotti – finiva ammanettato a un albero in un parco da battuage, e veniva abbandonato lì con i pantaloni abbassati fino alle caviglie.
E in chi doveva imbattersi questo indifeso poliziotto a culo nudo? In un gay effeminato con la borsetta al braccio e un barboncino al seguito. Quello dà un’occhiata al poliziotto e poi dice: «Non credo ai miei occhi. Un uomo nudo incatenato a un albero. Ma che folle, pazzesca e lasciva visione».
«Se mi tocchi ti ammazzo, brutto frocio figlio di puttana», dice il poliziotto. «Ti strappo i reni. Ti sfondo la milza».
«Davvero lo faresti per me?» risponde la checca. Poi si allontana serenamente col suo barboncino – che, ovviamente, è tinto di rosa.
Vedere quella scena con mio padre quando ero adolescente mi ha fatto venire voglia di morire perché sapevo che crescendo sarei stato una qualche specie di finocchio, e lo sapeva anche lui. Ma non ero ancora pronto ad affrontare la questione con lui, e lui non si sognava neanche di avvicinarcisi. Perciò quando in televisione comparivano dei gay – cosa che si fece sempre più frequente quando arrivai alla pubertà – c’era sempre un grande imbarazzo.
Guardammo la scena del parco de I ragazzi del coro in silenzio assoluto, proprio come facevamo con Barney Miller quando il comprimario gay compariva in un episodio. Insomma c’era quell’argomento che entrambi volevamo evitare a ogni costo e di punto in bianco la televisione ci tendeva un agguato. Da parte mia ero già molto a disagio per certi miei vezzi e interessi rivelatori. La passione per i musical, l’assenza assoluta di amici maschi, e la mia incapacità di concentrarmi su qualsiasi altra cosa quando nel programma Solid Gold c’era Andy Gibb. Tutte queste cose avevano già messo in allarme i miei genitori. A volte mi costringevo ad ascoltare i brani più popolari della Top 40, a giocare con i ragazzini del quartiere o a guardare una partita dei Cubs. Solo molti anni dopo scoprii che i miei genitori non avevano un problema – o comunque lo avrebbero superato – con il fatto che fossi gay. E la ragione per cui mio padre si ammutoliva quando in televisione apparivano dei personaggi gay? (Un mutismo che all’epoca interpretavo come quieto disgusto). Be’, a quanto pare non voleva mettermi a disagio ridendo.
Ma dopo tutti quegli anni passati davanti alla televisione con il mio silenzioso padre, ho preso una decisione. Da grande sarei stato una specie di frocio, questo lo sapevo bene, ma non sarei stato quella specie di finocchio. Non sarei andato in giro con la borsetta. E non mi sarei mai imbattuto in un poliziotto mezzo nudo incatenato a un albero in un parco pieno di marchette a notte fonda, perché non avrei portato a spasso un barboncino in un parco per il battuage a notte fonda. Perché non sarei stato il tipo di finocchio che possiede un barboncino.
Sarei stato un altro tipo di finocchio. Non come quelli che si vedevano in televisione nel 1982. E agli etero – come mio padre, Ronald Reagan, Anita Bryant – sarei piaciuto.
Gli uomini gay rappresentati in televisione durante la mia adolescenza mi causavano angoscia – erano imbarazzanti per me – ma non mi davano fastidio. Non lo facevano allora e non lo fanno adesso. Ho avuto modo di parlare con altri uomini gay più o meno della mia età e tutti fremono di rabbia quando rievocano quei personaggi gay con le borsette e i barboncini, la zeppola e la mano svolazzante. A me, invece, non hanno mai fatto arrabbiare.
Tuttavia mi decisi a non essere mai come loro. Mi accorgevo che gli etero nutrivano un certo disprezzo per i gay effeminati, in quanto li trovavano deboli e ridicoli. I gay con i barboncini rosa erano detestati e i veri uomini volevano sfondargli la milza.
Una volta uscito allo scoperto, ovviamente, non mi ci volle molto a capire che, per prima cosa, non tutti gli etero sono omofobi, e poi che gli etero omofobi non fanno distinzione tra gay virili ed effeminati. Ci disprezzano tutti, con o senza borsetta, con o senza barboncino. E gli uomini effeminati che ho conosciuto dopo essere uscito allo scoperto? Gli uomini a cui non volevo somigliare? Non erano affatto deboli e ridicoli. Erano forti. E coraggiosi. (E alcuni erano sexy, e fra questi alcuni erano anche molto bravi a letto).
Oggi, ogni volta che un amico si lamenta dei gay in televisione, io ammetto subito che sì, la maggior parte dei personaggi gay sono stereotipati. Lo erano allora e lo sono anche oggi. Ma la rappresentazione degli eterosessuali è davvero migliore? I gay di Will e Grace negli anni Novanta erano caricaturali, certo, ma lo erano anche gli etero di Friends. Le normali persone etero si comportano forse come quelle giumente in calore di Casalinghe disperate? E i veri etero si comportano come i finti etero di Lost? (Qualcuno si è mai comportato come gli etero di Lost?). I veri etero fanno come Tom Cruise da Oprah? La relazione tra Cam e Mitch di Modern Family, una coppia gay con una bambina, è quasi priva di sesso, il che, come sappiamo conoscendo i gay, è alquanto irrealistico. Mentre Claire e Phil, i tormentati genitori etero di tre adolescenti, hanno una vita sessuale piuttosto vivace, il che come sappiamo conoscendo le coppie sposate di lungo corso, forse è ancora meno realistico.
Solo un idiota guarda la televisione per farsi un’idea di come sono gli etero. Solo un idiota… o un bambino. Forse un bambino che, come Lily in Modern Family, ha dei genitori gay.
Quando D.J. fu abbastanza grande da usare il telecomando, mi sentii come se stessi regredendo agli anni della mia adolescenza, perché di colpo mi preoccupavo di come le persone di una certa sessualità venivano rappresentate in televisione. Solo che stavolta non erano gli omosessuali a preoccuparmi, bensì gli eterosessuali. Perché sapevo che mio figlio etero li stava guardando.
Sapevo che D.J. era etero come i miei sapevano che ero gay: lo sapevo e basta. L’avevo sempre saputo. Era una sensazione di pancia. Ma al contrario dei miei genitori non avevo problemi ad accettare la realtà. Non mi sforzavo di non pensarci né speravo di sbagliarmi.
E man mano che D.J. cresceva ero consapevole che stesse imparando la propria sessualità guardando la televisione, proprio come avevo fatto io con la mia. E in quegli anni di formazione, quando D.J. aveva sette o otto anni, trovai il modo di trattare l’eterosessualità di uno show in particolare così offensivo che proibii a mio figlio di guardarlo. E non sto parlando del franchising di Real Housewives. Quello non gliel’avremmo lasciato guardare neppure se avesse voluto. E non voleva. Per D.J. i reality show erano giusto un mucchio di adulti che si urlavano in faccia, e non c’era certo bisogno di guardare la televisione per quello.
No, si trattava di un programma per ragazzini sul Disney Channel, e all’epoca era una delle trasmissioni per bambini più popolari. E D.J. lo adorava. Zack e Cody al Grand Hotel parla di due gemelli che vivono in un hotel di Boston, il Tipton, dove la loro mamma divorziata lavora come cantante di cabaret.
Zack e Cody si infilavano di continuo nei pasticci e architettavano piani balordi. Anche loro erano preadolescenti – di dieci o undici anni – appena uno o due anni più grandi di D.J. In un certo senso il programma voleva sfidare gli stereotipi. C’è un personaggio chiamato London, che è una ragazzina ricca e viziata interpretata da un’attrice asiatica che però – attenzione – nonostante sia asiatica è scema. Poi c’è Maddie, un’adolescente che lavora al negozio di caramelle dell’albergo, interpretata da un’attrice bionda, che però – meglio se vi sedete – nonostante sia bionda è intelligente. E poi c’è Mr Moseby, il direttore dell’albergo, interpretato da un attore nero. Che però è schizzinoso. Non so se possieda un barboncino dato che non ho visto tutti gli episodi, ma è decisamente il classico tipo da barboncino.
Ma ciò che mi ha offeso di più – e preoccupato – è stato il comportamento di uno dei due gemelli. Zack era sessualmente precoce in modo davvero inquietante. (Ma un ragazzo pre-pubescente può essere sessualmente precoce in modi che non siano davvero inquietanti?). Zack era anche il gemello più carismatico: Zack stava a Cody come Lucy a Ethel. Zack era quello atletico che non aveva paura di rischiare. E in ogni episodio desiderava, spasimava, si struggeva e molestava sessualmente Maddie, la bionda intelligente. Maddie aveva sedici o diciassette anni. Zack era alle elementari, mentre Maddie alle superiori. Zack pre-pubescente, Maddie post-pubescente.
Quando era piccolo non mi piaceva che D.J. guardasse la televisione da solo. Quindi mi buttavo sul divano a leggere vicino a lui, ed è così che ho beccato l’episodio di Zack e Cody in cui Zack si affligge perché Maddie esce con altri ragazzi. Poi un episodio in cui Zack insegna ad altri ragazzini l’arte di parlare con le pupe. Cosa gli consiglia? Alle pupe bisogna mentire. In un episodio particolare, «Il ballo studentesco», Zack si avvicina a Maddie e… be’, meglio se leggiamo il dialogo:

ZACK, squadrando Maddie dalla testa ai piedi: «Hey, dolcezza. Qual è la prelibatezza del giorno? Spero che sia alta, bionda e formosa».

Non so come reagirebbe nella realtà un’adolescente se un ragazzino di dieci anni ci provasse con lei dato che non succede mai. Comunque Zack riesce a sfuggire all’umiliazione di un pugno sul petto che qualunque altro Zack si sarebbe beccato nella vita reale. Invece del pugno, Zack ne esce con la convinzione che Maddie gli abbia chiesto di accompagnarla al ballo studentesco. Allora corre subito da Cody.

ZACK, eccitato: «Hai sentito? Maddie vuole ballare con me alla festa. Meglio se mi alleno un po’ a baciare».
CODY, schifato: «Non con me».

Tre al prezzo di una. Abbiamo la battuta di un pre-pubescente arrapato, un’altra sull’incesto e infine la stereotipata reazione omofobica all’idea di due ragazzi che si baciano, che siano fratelli o no.
Grazie, Disney.
D.J. guardava Zack e Cody al Grand Hotel con molta concentrazione, uno sguardo che non aveva davanti a nessun altro programma e che di certo non ha quando gli parlano i suoi genitori. Sembrava che stesse immagazzinando informazioni per tenerle pronte all’uso. Essendo un ragazzino senza fratelli maggiori e senza zii o cugini etero nelle vicinanze, eravamo preoccupati che il modo in cui Zack trattava le donne fosse un problema potenzialmente dannoso per un giovanissimo etero quanto quelle immagini di gay con i barboncini erano state per me.
Questo è il motivo per cui abbiamo proibito a D.J. di guardare Zack e Cody – questo e un altro episodio in cui Zack faceva un buco nella parete per spiare le ragazze che andavano in bagno. Ci sono persone che finirebbero sul registro dei molestatori sessuali per sempre se facessero esattamente ciò che la Disney ha fatto fare a Zack.
Non solo i divieti dei genitori sono inefficaci, ma sono anche controproducenti. Lo sapevo per esperienza personale durante la mia infanzia. Mio padre ci aveva proibito di guardare Tre cuori in affitto (troppo esplicito sessualmente) e di ascoltare i Kiss (troppo satanici). Perciò i suoi figli guardavano Tre cuori in affitto a casa degli amici e nascondevano i dischi dei Kiss nelle custodie degli album dei Beach Boys. Infatti D.J. ha continuato a guardare Zack e Cody a casa dei suoi amici o quando i suoi genitori non erano nella stessa stanza a supervisionare le sue fruizioni televisive.
Voglio aggrapparmi a una speranza. Nonostante l’esposizione a tutti quegli uomini gay un po’ frufrù che portavano a spasso i barboncini in TV durante i miei anni formativi, crescendo sono diventato un altro tipo di gay. E nonostante i ragazzini arrapati che D.J. ha visto sul Disney Channel, per ora sembra che stia crescendo come un etero di tutt’altro tipo. Forse finiremo entrambi per sfidare gli stereotipi.
L’unico problema è il destino. Si può sfidare uno stereotipo. Puoi fare del tuo meglio per rigettarlo. Ma gli stereotipi sono pazienti. A volte sanno aspettare più a lungo di te, ti prendono sulla stanchezza, ti cullano in un falso senso di sicurezza. E poi – bam! – un giorno ti svegli e ti ritrovi proprietario di un barboncino.
Quando D.J. aveva cinque anni chiese a Babbo Natale di portargli un barboncino. E non gliene bastava uno qualunque, ne voleva uno di taglia toy. E il nome di quel barboncino sarebbe stato Pierre.
Provai a fargli cambiare idea – egoisticamente; lo facevo per me stesso – ma presentavo ogni discussione come una falsa preoccupazione per D.J. Non possiamo fargli questo, dicevo a Terry. Ha già i genitori gay, e uno dei due sono io. Ha già una enorme croce rosa da portare. Volevamo davvero inchiodarci sopra anche un barboncino?
Ma D.J. era irremovibile. Aveva un amico, un ragazzino con genitori di sesso opposto – cioè etero – e il suo amico coi genitori di sesso opposto aveva un barboncino toy. Queste persone
avevano arruolato mio figlio. Perché è questo ciò che fa la gente coi barboncini. Ti adescano nel loro stile di vita coi barboncini prendendo di mira i tuoi figli.
Siamo comunque riusciti a convincere D.J. a usare un nome meno gay per il suo barboncino. Stinker ha un occhio solo, è completamente sordo e quando lo chiami non viene, inoltre va a sbattere contro le pareti, le sedie e gli alberi. E D.J. gli vuole un gran bene.
Conosco il vizio di Stinker di andare sbattere contro gli alberi perché sono quello a cui capita più spesso dato che lo porto fuori la sera. Abitiamo a Capitol Hill, che è il quartiere gay di Seattle. E vicino c’è un grande parco, quello più gettonato di Seattle per il battuage. Si chiama Volunteer Park, e il nome si addice abbastanza perché dietro un cespuglio su due si annida un volontario. E potete trovarci anche me, a notte fonda, che porto a spasso un barboncino.
«Non è il mio barboncino», mi veniva da gridare una volta a ogni occhiata che ricevevo. «È il barboncino di mio figlio. Mio figlio etero. Non è mio».
Ma ora mi sono abituato a Stinker. Mi sono adattato. Mi sono accettato in quanto uomo gay che è proprietario di un barboncino. E come i froci di Barney Miller e de I ragazzi del coro, porto orgogliosamente a spasso il mio barboncino per un parco di battuage a notte fonda.
In definitiva, la famiglia ha un’influenza maggiore della televisione. Quando sarà il momento, speriamo di riuscire ad aiutare D.J. a controllare quella smania per le ragazze, proprio come lui ha aiutato me a essere proprietario di un barboncino.
E come il padre di D.J. può portare a spasso un barboncino per un parco di battuage senza per questo essere un finocchio totale, sono sicuro che un giorno D.J. avrà una smania per le ragazze senza essere uno Zack totale.
O almeno è questo che dico a me stesso mentre porto a spasso il cane nel parco di battuage a notte fonda. Sono certo che è solo questione di tempo prima che Stinker vada a sbattere dritto contro un albero a cui è ammanettato un poliziotto con il culo di fuori.