Si può morire di crepacuore?

Sì, è possibile: lo spiega una giornalista del New York Magazine, citando un importante studio di alcuni anni fa

(Wikimedia)
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Nel gergo comune il “crepacuore” è quello che succede al cuore dopo un enorme spavento, un grosso trauma o un improvviso lutto. In inglese si chiama “broken heart” (cuore spezzato) e capita spesso di sentir parlare di morte di o per crepacuore: casi in cui il decesso viene descritto come causato da qualcosa di simile a un infarto ma per una causa emotiva. Alcuni giorni fa è successo che Dick e Joan Flutie, i genitori dell’ex giocatore di football americano Doug Flutie, siano morti nell’arco di un’ora dopo 56 anni di matrimonio: entrambi di infarto, prima lui e poi lei. Un recente articolo di Melissa Dahl sul New York Magazine, allora, si è occupato del crepacuore, chiedendosi se – al di là del diffuso modo di dire – sia qualcosa di vero e scientificamente provato.

Dahl scrive che nella maggior parte dei casi succede che siano le donne a morire di crepacuore, e che il caso di una donna che muore poco dopo suo marito è noto come “effetto della vedovanza“. Nel 2008 i ricercatori Nicholas A. Christakis e Felix Elwert hanno dedicato un articolo accademico all’effetto della vedovanza, scrivendo che è «uno degli esempi meglio documentati degli effetti che le relazioni sociali hanno sulla salute». Christakis e Elwert analizzarono dati riguardanti oltre 300mila coppie sposate di anziani che vivevano negli Stati Uniti, osservando che «la morte di un coniuge è una significativa minaccia per la salute per il coniuge che sopravvive, e rappresenta un sostanziale rischio di morte».

Alcune settimane fa della morte per crepacuore ha parlato anche uno studio dell’Università Cattolica e del Policlinico di Roma, pubblicato sul New England Journal of Medicine. Nello studio quello che viene di solito definito crepacuore viene chiamato sindrome di Takotsubo. La Stampa la spiega così:

La sindrome di Takotsubo si associa a malattia neurologica o psichiatrica nella metà dei casi, ovvero si presenta spesso in associazione a disturbi psichiatrici come la depressione. Si manifesta come un infarto, con sintomi quali dolore al petto o affanno improvviso, si associa ad alterazioni dell’elettrocardiogramma, ma al momento della coronarografia d’urgenza, eseguita nel sospetto di infarto miocardico, le coronarie risultano sorprendentemente normali, senza stenosi (restringimento). Il cuore, però, mostra una alterazione della forma, che diventa a palloncino, a simulare appunto il vaso (tsubo) che usano i giapponesi per raccogliere i polipi (tako).

Christakis ed Elwert hanno anche spiegato che nel caso in cui un coniuge muoia dopo una malattia lunga, e il cui probabile esito era la morte, non ci sono casi di morte per crepacuore della donna rimasta vedova, che in quei casi ha avuto tempo di prepararsi al lutto. Dahl spiega quindi che il problema non è il lutto in sé: è il fatto che quel lutto sia improvviso e inatteso. I dati raccolti e analizzati da Christakis e Elwert spiegano per esempio che ci sono casi di morte per crepacuore anche in seguito a incidenti o situazioni d’emergenza di un coniuge: in quel caso la paura che un una persona amata possa morire è la causa della morte dell’altro.

La cosiddetta morte per crepacuore, dicono quindi gli studi, esiste ed è più comune nelle donne, ma si verifica anche tra gli uomini. Anche se si tratta di un caso in cui non esistono elementi scientifici per parlare propriamente di “crepacuore”, la parola viene associata spesso anche alla storia del cantante e musicista Johnny Cash e di sua moglie June Carter, anche lei cantante. Si sposarono nel 1968, dopo un lungo corteggiamento, restarono insieme fino al maggio 2003, quando Carter morì; Cash morì quattro mesi dopo, il 12 settembre 2003.