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  • Giovedì 26 novembre 2015

La storia di Shorsh e dei curdi scappati da Saddam Hussein

Raccontata nel primo capitolo di "La frontiera", il nuovo libro di Alessandro Leogrande che parla di migranti, scafisti e sopravvissuti

È uscito per Feltrinelli il libro La frontiera di Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore, vicedirettore del mensile Lo straniero e autore di diversi libri sui temi delle migrazioni e dello sfruttamento degli immigrati.

La frontiera di cui parla Leogrande è sia una frontiera fisica, quella del Mediterraneo attraversato dalle barche dei migranti, che quella più astratta che divide i paesi democratici e avanzati della parte più ricca del mondo da quelli del Sud del mondo, i cui abitanti fuggono da povertà, guerre e arretratezza. Leogrande affronta diversi episodi e temi (le operazioni militari nel Mediterraneo per contrastare l’immigrazione, le storie dei sopravvissuti ai naufragi, quelle degli scafisti, il percorso delle migrazioni attraverso i Balcani, i CIE in Italia) che si legano fra loro per costituire un’unica grande storia.

Questo è il primo capitolo del libro.

***

Si chiamava Shorsh, e l’ho conosciuto alla fine degli anni novanta. Sarà stato il 1998 o il 1999, al tempo della prima ondata di profughi curdi verso l’Italia, un fiume di uomini e donne, in gran parte giovani, in fuga dalla follia omicida di Saddam Hussein.
Una sera, nella casa di studenti dove vivevo, dalle parti di Ponte Milvio, Shorsh ci fece vedere una videocassetta. La conservava nella tasca del giaccone, tra fogli spiegazzati, fitti di appunti in varie lingue, scontrini, una piantina di Roma con alcune strade cerchiate a penna. La vhs era senza custodia. Quando la inserì nel videoregistratore, ci disse solo che riguardava i curdi. “Riguarda noi.” Gliel’aveva data un amico a Termini, nel piazzale davanti alla stazione, la sera prima.
Poi le immagini partirono, e di colpo il tempo si fermò. Non avevo mai visto niente di simile. Il cameraman si aggirava tra le case basse di un villaggio di campagna, avanzando lungo strade prive di asfalto. Non una parola di commento, non un rumore di sottofondo, a parte quello cadenzato delle scarpe sulla terra. Poi all’improvviso, due corpi accasciati, immobili, il volto congestionato, davanti alla porta di legno scuro di una casa. Non erano gli unici cadaveri: una selva di corpi, ora seduti ora stesi, era riversa nelle strade, tra la polvere. Anche quando l’uomo con la telecamera in spalla entrava senza fiatare in una delle case basse, la situazione non variava. Negli spazi angusti, tra tavoli, sedie, i pochi tappeti, altri corpi erano ammucchiati a terra.
Quelle scarne immagini ritraevano il massacro di Halabja, una cittadina curda dell’Iraq fatta gasare nel marzo del 1988, ai tempi della guerra con l’Iran. Non lo sterminio nel suo compiersi, ma la quiete dopo la furia, la fine della vita dopo la furia. Ritraevano la morte nella sua oscenità.
Più tardi, nei processi contro i vertici dell’esercito iracheno sarebbe stato definito un atto di genocidio, in cui avevano perso la vita cinquemila persone. Cinquemila uomini, donne, vecchi, bambini, assieme ai loro animali, vacche, asini, cani, cavalli, che nel video apparivano numerosi, riversi per terra proprio come gli esseri umani al loro fianco. L’uomo con la telecamera sembrava indugiare soprattutto sui cavalli, i denti spalancati, le mosche intorno alle narici ormai secche, le gambe piegate come fossero di gomma.
In quel momento, dalle parti di Ponte Milvio, quelle crude immagini che ci piovevano addosso senza il minimo commento, senza una spiegazione, mi sembravano del tutto prive di pudore, infinitamente sgraziate, incomprensibili al di là del dato evidente della morte di massa, del perpetuarsi di una carneficina talmente assoluta da apparire lontana dal nostro orizzonte. Quanto meno da quello di un gruppo di studenti italiani, raccolti in una casa romana, sul finire del Novecento.
Mi accorsi, di colpo, che le stavo osservando senza essere in grado di interpretarle. Eppure quelle immagini per Shorsh erano tutto. Non erano un prodotto della Storia, erano il suo presente. Non erano una riflessione teorica, erano carne viva. Spiegavano nel dettaglio i motivi della sua fuga in Italia, svelavano un passato di violenze inenarrabili a cui aveva assistito da vicino, a cui parenti o amici avevano assistito, quando non ne erano stati vittima. La vhs che le custodiva era uno scrigno sacro; e il suo nastro, che a un certo punto Shorsh fissò come una reliquia, prima di soffiarci sopra per liberarlo di ogni minimo granello di polvere, era prezioso più dell’oro.
Dalla sera prima, non l’aveva più tirata fuori dalla tasca del giaccone. A notte inoltrata togliemmo la custodia di plastica dura a uno dei tanti film che avevamo in casa e la regalammo a Shorsh. Avrebbe potuto preservare quell’unico filo che ancora lo legava al suo mondo.

Ho impiegato molto tempo per comprendere il potere di quelle immagini. Ma questa difficoltà a parlarne non riguarda solo la violenza di quel giorno preciso, di quel momento. Riguarda anche il viaggio di Shorsh verso la placida Europa, la sua condizione di profugo negli anni successivi, e quella serata a Ponte Milvio.
Lavoravamo da un paio di mesi come volontari in una scuola d’italiano per immigrati sorta all’interno di un centro sociale lungo la Prenestina, dall’altra parte della città. In breve tempo le aule si erano riempite di decine di profughi come Shorsh, e ci era parso di soccombere di fronte alla crescente difficoltà di sciogliere le reciproche incomprensioni linguistiche. Molti di noi non avevano la minima competenza didattica, anche se ci affannavamo a riempire cartelloni con le coniugazioni verbali e le frasi base delle conversazioni più elementari. Non durò a lungo. Ma con alcuni di loro, e Shorsh era tra questi, stringemmo amicizia, facendo proseguire i nostri incontri, e le nostre chiacchierate, ben al di là delle poche ore di lezione negli stanzoni gelidi del centro sociale.
Per la prima volta, quella sera, ebbi la sensazione di quanto fosse difficile capire la vita prima del viaggio, l’ammasso di eventi che precede ogni partenza, per decine, centinaia di migliaia di migranti che si riversano ai confini della frontiera europea. Eppure nessuno inizia a vivere nel momento in cui l’imbarcazione che lo trasporta appare davanti alle nostre coste: il viaggio ha avuto inizio prima, anche anni prima, e i motivi che l’hanno determinato sono spesso complicati.
Non sono tanto le motivazioni individuali ad apparire incomprensibili. Chiunque parta lo fa per scappare da una situazione divenuta insopportabile, o per migliorare la propria vita, per dare un futuro dignitoso alla moglie o ai figli, o semplicemente perché attratto dalle luci della città, dal desiderio di cambiare aria. No, non è questo ad apparire incomprensibile. Ad apparirci spesso incomprensibili sono i frammenti di Storia, gli sconquassi sociali, le fratture globali che avvolgono le motivazioni individuali, fino a stritolarle. Incomprensibili perché provengono letteralmente “da un altro mondo”.
Quella sera, la violenza sui curdi di Halabja mi appariva quasi pornografica nella lenta successione di corpi inermi di uomini e animali, perché nulla sapevo della loro storia, nulla sapevo degli omicidi di massa perpetuati dal regime di Baghdad. O meglio non ne sapevo abbastanza. Non abbastanza per poter decifrare quei fotogrammi.
Credo che sia questo uno dei principali motivi per cui ci è difficile comprendere il “popolo dei barconi” che giunge sulle coste europee. Ci è facile utilizzare la categoria di “vittima”, almeno quando ci liberiamo dell’ossessione di essere invasi. Ma quella categoria, a sua volta, appare indistinta, quasi priva di carne e storia, proprio come le immagini di Halabja che scorrevano senza commento davanti ai miei occhi in una sera apparentemente simile a tante altre.

Ho frequentato Shorsh per un po’. I baffi folti e spessi, le guance scavate, la sigaretta sempre in mano, i pantaloni di una taglia più grande sulle gambe, che si intuivano essere molto magre. Ci teneva a far sapere che il suo nome, in curdo, vuol dire rivoluzione.
Era un ottimo cuoco, benché mangiasse molto poco dei piatti che preparava con tanta cura. Ricordo che una volta, al San Camillo o al San Giovanni, subì un’operazione chirurgica di cui si vergognava. Non ne parlava volentieri. Erano state riscontrate lesioni all’ano, che gli producevano costantemente delle emorroidi. Erano la conseguenza delle torture subite nelle carceri irachene: diceva di essere stato costretto a sedersi ripetutamente con le mutande abbassate su una bottiglia di vetro. All’inizio, davanti al riso degli aguzzini, aveva provato solo vergogna. Ma poi un dolore acuto si era sostituito al senso di nausea quando in due lo avevano afferrato per le spalle e lo avevano schiacciato sul collo della bottiglia. Era stato proprio per quello che, qualche mese dopo, aveva ottenuto l’asilo politico in Italia. Shorsh era a tutti gli effetti una vittima di tortura.

Sono passati molti anni, e non so che fine abbia fatto. Tempo fa ho appreso da un amico comune che, dopo la cattura di Saddam nel 2003, è voluto tornare in Kurdistan. Ha fatto a ritroso il viaggio che lo aveva portato in Europa, nella speranza di ricostruirsi una nuova vita lì.
Forse si è perso nei meandri del nuovo Iraq, tra le convulsioni di un lunghissimo dopoguerra, presto sprofondato in uno stato di feroce anarchia, dal cui pantano sono emersi i tagliagole dello Stato islamico. O forse è riuscito a rimanere a galla.
Ma sono solo ipotesi. Di Shorsh non ho saputo più niente. E ora mi sento in colpa. Non perché “occuparmi” di lui fosse un obbligo. Mi sento in colpa per il semplice fatto di non aver capito molte cose, prima che scomparisse nel nulla. Come dal nulla era venuto.

È così che ho sviluppato questa ossessione. Provare a rendere quel nulla un po’ meno nulla. Provare a oltrepassare la categoria di “vittima”, che non spiega niente della complessa vita degli esseri umani. Provare a dipanare i fili di eventi che a prima vista paiono incomprensibili nel loro ginepraio di violenza, lutti, oppressione, che pure determina la vita di tanti.
Sono passati più di quindici anni da quella sera a Ponte Milvio. Proprio frequentando Shorsh e alcuni curdi arrivati a Roma negli stessi mesi, ho avuto la percezione che l’attraversamento della frontiera europea stesse diventando un fatto globale. Che a bordo dei barconi che allora si riversavano sulle coste pugliesi, così come in seguito si sono riversati su Lampedusa e sulle coste siciliane, non c’erano solo i profughi dei Balcani, o gli albanesi in fuga dal crollo di una dittatura claustrofobica, ma gente che veniva da un Oriente più lontano.
C’era un Est molto più a est dei Balcani. E c’era un Sud molto più a sud del Maghreb. La lontananza di quei paesi e la scarsa conoscenza che ne avevamo spesso sconfinavano colpevolmente nell’esotismo. Il business degli scafisti si è fatto imponente proprio allora: quando le coste italiane sono diventate la porta per accedere all’Europa, e l’Europa ha provato a erigere una serie di muri davanti alle proprie frontiere.
In questi anni ho conosciuto tantissimi uomini e donne come Shorsh. Di molti ho perso le tracce. Tanti sono ripiombati nel nulla prima che potessi saperne di più. Alcuni sono morti proprio quando pensavano di avercela fatta a lasciarsi la Storia alle spalle.
Da qui la mia ossessione. Se le coste europee non possono essere che frontiera, tanto vale provare a fissare sulla sabbia alcuni dettagli, alcuni brandelli di esistenza, che altrimenti verrebbero meno col venir meno delle persone. La frontiera è un termometro del mondo. Chi accetta viaggi pericolosissimi in condizioni inumane, attraversando i confini che si frappongono lungo il suo sentiero, non lo fa perché votato al rischio o alla morte, ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano