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  • Giovedì 12 novembre 2015

Tutte le automobili di Neil Young

Come sanno i fans, gli sono sempre piaciute parecchio: adesso le ha raccontate e disegnate lui stesso in un nuovo libro autobiografico

Feltrinelli ha pubblicato il libro Special deluxe: Racconti di vita e di automobili, di Neil Young, celeberrimo cantautore canadese oltre che autore del libro Il sogno di un hippie.
Il libro è tradotto in italiano da Marco Grompi e Davide Sapienza e raccoglie ricordi della vita di Neil Young (come il libro precedente), legati ai modelli di auto possedute da lui o dalla sua famiglia: ogni capitolo è introdotto da un acquerello che ha disegnato lui stesso che raffigura l’automobile protagonista del capitolo.
Questo è il primo capitolo del libro.

***

Skippy era un Labrador meticcio e mi ricordo di lui quando ero un ragazzino di quattro o cinque anni. Era fondamentalmente un Labrador giallo con tracce di qualche altra razza che sono certo erano quelle che gli davano personalità e resistenza. Dico questo perché mio papà era solito portare Skippy a correre nei weekend e ogni qualvolta sembrasse giusto. Le corse col cane erano una meravigliosa esperienza familiare. Eravamo circa nel 1950, la benzina costava ventisette centesimi al gallone, l’equivalente di sette centesimi di dollaro al litro, e noi avevamo una Monarch Business Coupe del 1948 con un bagagliaio enorme. Per come lo ricordo, Skippy saltava dentro felice scodinzolando e pronto a partire; sapeva che saremmo andati a fare una corsa in campagna. Una volta che papà aveva chiuso il bagagliaio con Skippy al sicuro, saltavamo tutti in auto.
Omemee, il nostro paesino di 750 abitanti, era sulla Highway 7 tra Lindsay e Peterborough, nella provincia di Ontario nel vasto paese che è il Canada: l’aperta campagna era giusto a cinque chilometri di distanza. Andavamo tutti insieme, superando la discarica accanto alla palude e attraversando il ponticello basso sotto al quale l’acqua scorreva lentamente unendo le due porzioni della palude, o “pantano”, come veniva chiamata nella zona. Da un lato c’era la grande distesa d’acqua con i tronchi che spuntavano dove una volta c’erano alberi, prima della costruzione della diga e del mulino, che avevano cambiato per sempre il naturale flusso del fiume. Sull’altro lato c’era l’acquitrino, che consisteva principalmente di tifa ed erbe di palude.
All’estremità della latrina, dove c’era la diga, i contadini portavano il raccolto al mulino per macinarlo con la mola azionata dall’acqua che, scorrendo sotto, faceva girare una grande ruota a pale. Il punto dove l’acqua entrava dalla palude nel mulino era molto profondo e gorgogliava di mulinelli come se ribollisse. Lì vivevano i pesci. Una volta, mentre mamma e papà erano a cena da amici che abitavano accanto al mulino, invece di starmene lì seduto ad annoiarmi mentre loro parlavano e bevevano, al tramonto scesi al mulino, catturai alcune rane, le attaccai alla mia lenza e acciuffai tre o quattro grosse spigole che portai orgogliosamente alla festa.

Tornando all’auto, dopo avere attraversato il ponte basso, diventava lampante che ci trovavamo su una strada costruita sul vecchio tracciato ferroviario abbandonato. Era diritta, stretta e ricoperta di vegetazione, con la superficie liscia per interi chilometri. Viaggiavamo lungo la vecchia strada sterrata attraverso un bel tunnel di foglie multicolori da dove filtrava il sole. Quando papà fermava l’auto, io scendevo con lui ad aprire il bagagliaio per far scendere Skippy, poi risalivamo in auto e ripartivamo mentre lui ci rincorreva. Dopo qualche chilometro si arrivava alla Hog’s Back, la schiena d’asino, una strada che si inerpicava sui colli. Lungo i lati della Hog’s Back si estendeva una staccionata di legno di cedro ancorata con pali di pietra distanziati una quindicina di metri tra loro. Era una strada sterrata anche più grezza e accidentata che andava su e giù per i colli, tutta disseminata di grosse pietre e dove nel mezzo ci cresceva l’erba. Si doveva procedere molto lentamente. Skippy, spesso, come vedeva una talpa si lanciava ululando e abbaiando al suo inseguimento. Papà si fermava, per un po’ gli lasciava dare la caccia alla talpa, poi quando Skippy tornava alla Monarch con la lingua fuori, era sempre ricoperto di ricci e appiccicose sterpaglie di ogni genere.
Che io sappia, per quanto si sia divertito tanto, Skippy non ha mai preso una talpa; si tornava a strisciare lentamente nella Monarch lungo la Hog’s Back sino a un campo dove c’era un piccolo stagno e lì Skippy poteva bere a volontà. Poi papà apriva lo sportello enorme del bagagliaio e lui tutto felice ci saltava dentro raggomitolandosi nella coperta che mamma gli aveva preparato. Tornati a casa, quando si apriva il bagagliaio Skippy era sempre lì raggomitolato, ma pronto a saltar fuori rapidamente per entrare in casa scodinzolando.
Di fatto, la Monarch è una Mercury fabbricata in Canada; è uguale a quella americana ma ha un altro nome. La nostra era di colore chiaro, era chiamata la coupé degli uomini d’affari, credo per l’enorme bagagliaio adatto a contenere prodotti da vendere. Era davvero un’auto per lavoratori. Senza fronzoli. Mi pare di ricordare che nella nostra ci fosse anche un piccolo sedile posteriore, anche se alcune non l’avevano. Era semplice, confortevole e i rivestimenti interni erano di tessuto. Il mio primo ricordo della Monarch del 1948 è a Jacksons’s Point, un luogo dove per qualche tempo abbiamo vissuto sul lago, prima che la famiglia si trasferisse a Omemee dove me la ricordo nitidamente nel vialetto, prima di venire sostituita da una berlina a quattro porte.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
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