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  • Giovedì 12 novembre 2015

In Burundi può finire come in Ruanda?

Da settimane si parla del rischio che le violenze tra burundesi possano diventare una cosa simile al genocidio del 1994: la storia dall'inizio

Una donna nel quartiere Kinama di Bujumbura, in Burundi, il 22 giugno 2015. (AFP PHOTO / CARL DE SOUZA)
Una donna nel quartiere Kinama di Bujumbura, in Burundi, il 22 giugno 2015. (AFP PHOTO / CARL DE SOUZA)

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà oggi per votare una risoluzione sulla complicata situazione del Burundi, un piccolo paese dell’Africa senza sbocchi sul mare appartenente alla regione dei Grandi Laghi. Dallo scorso aprile in Burundi sono state uccise almeno 240 persone e altre 200mila hanno lasciato il paese, a causa degli scontri cominciati dopo l’annuncio di Pierre Nkurunziza di volersi candidare alla presidenza del paese per un terzo mandato consecutivo. Dopo le elezioni dello scorso luglio, nelle quali Nkurunziza è stato rieletto presidente, la situazione non è migliorata e alcuni analisti oggi parlano dei rischio che in Burundi possano cominciare violenze etniche simili a quelle che furono compiute durante il genocidio in Ruanda del 1994.

Da mesi l’opposizione in Burundi contesta a Nkurunziza la legittimità della sua ultima candidatura a presidente: nonostante lo scorso maggio la Corte Costituzionale avesse stabilito che un suo eventuale terzo mandato da presidente non fosse contrario alla Costituzione – interpretazione comunque molto discussa – la sua ultima candidatura era certamente contro il cosiddetto “spirito di Arusha”, cioè quegli accordi firmati nel 2005 per mettere fine alla guerra civile che si stava combattendo dal 1993 tra hutu e tutsi. Dall’inizio delle proteste e fino a oggi il governo burundese ha reagito con molta violenza nei confronti dell’opposizione: sabato notte, per esempio, le forze di sicurezza hanno fatto diversi raid in alcuni quartieri della capitale Bujumbura – quelli dove sono concentrati gli oppositori di Nkurunziza – per arrestate le persone che non avevano ancora consegnato le armi, come invece il governo aveva chiesto di fare sette giorni prima. Secondo diverse testimonianze, sono stati uccisi anche alcuni abitanti locali che erano disarmati. Le persone che sono state trovate in possesso di armi sono invece state considerate “nemiche dello stato”; molti, per paura di ritorsioni da parte dell’esercito, hanno lasciato le loro case.

I paragoni con il genocidio in Ruanda – che fu compiuto principalmente dagli hutu contro i tutsi – vengono usati da diverso tempo, ma sono stati molto ripresi pochi giorni fa quando il presidente del Senato, Reverien Ndikuriyo, ha usato espressioni simili a quelle usate durante il genocidio. Ndikuriyo – che appartiene all’etnia hutu, maggioritaria in Burundi – ha detto alla radio nazionale: «Oggi un agente di polizia è stato colpito da un proiettile. Ma quando arriverà il giorno che noi diremo a loro di “andare al lavoro”, che non vengano a piangere da noi». La frase era diretta agli oppositori del governo burundese, per buona parte di etnia tutsi, una divisione etnica simile a quella che c’era in Ruanda prima il genocidio. “Andare al lavoro” – ha scritto in un suo rapporto l’International Crisis Group – era una delle espressioni usate dagli hutu al potere in Ruanda per dire in radio alla popolazione hutu di “uccidere i tutsi”. Il ministro della Pubblica sicurezza, Alain-Guillaume Bunyoni, ha ricordato ai tutsi la loro condizione minoritaria, dicendo anche che «se le forze dell’ordine falliranno abbiamo comunque nove milioni di cittadini a cui basta dire “fate qualcosa”». In Ruanda nel giro di 100 giorni furono uccise almeno un milione di persone.

Alcuni analisti sono comunque piuttosto cauti nell’individuare il rischio di un nuovo genocidio: per esempio Christopher Vogel, ricercatore esperto della regione dei Grandi Laghi dell’Università di Zurigo, ha detto che l’attuale crisi del Burundi è più politica che etnica. Secondo Vogel i burundesi tendono a dare più importanza all’appartenenza ai clan piuttosto che all’identità etnica, come invece successe durante il genocidio in Ruanda: al di là di questo, ha aggiunto Vogel, l’escalation recente di violenza è un fenomeno molto preoccupante. Anche perché, come ha scritto l’analista Thierry Vircoulon su un blog dell’International Crisis Group, l’unica istituzione oggi in Burundi in grado di fermare le violenze è l’esercito, che però è molto diviso e incapace di intervenire efficacemente.

La risoluzione che sarà votata oggi dal Consiglio di sicurezza era stata proposta nei giorni scorsi dalla Francia: l’ultima versione è però parecchio diversa dalla prima bozza che era circolata. Il governo francese aveva proposto, tra le altre cose, di imporre sanzioni ai politici del Burundi che avessero incitato alla violenza, ma nell’ultima versione le sanzioni non sono più menzionate (si parla solo dell’adozione di “misure appropriate”). Al Jazeera ha scritto che le modifiche sono state chieste dalla Russia e da altri paesi africani, che hanno sostenuto che le sanzioni non sarebbero state comunque efficaci. L’ONU sta valutando l’opportunità di mandare in Burundi i suoi peacekeepers che oggi si trovano nella Repubblica Democratica del Congo, assistiti da alcune truppe d’élite – molto più rapide – provenienti dal Sudafrica, dal Malawi e dalla Tanzania. Un’altra opzione che si sta considerando è quella di impiegare le truppe regionali africane.