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  • Lunedì 2 novembre 2015

“Lui è tornato”, è uscito il film del libro

È uscito in Germania il film tratto dal romanzo di Timur Vermes che immagina Hitler nella Berlino dei nostri giorni

Photo by: Jens Kalaene/picture-alliance/dpa/AP Images
Photo by: Jens Kalaene/picture-alliance/dpa/AP Images

È uscito in Germania Er ist wieder, il film tratto da Lui, è tornato il romanzo dello scrittore tedesco Timur Vermes pubblicato nel 2012 in Germania (e in Italia l’anno successivo da Bompiani per la traduzione di Francesca Gabelli) e che divenne il caso letterario di quell’anno: immaginava che Adolf Hitler si risvegliasse improvvisamente a Berlino nel maggio del 2011 e raccontava le situazioni surreali, grottesche e divertenti in cui si sarebbe infilato nel fare proseliti nella città tedesca contemporanea, multietnica ma ancora razzista. La casa di produzione non ha ancora annunciato se il film verrà distribuito anche in Italia.

Il film è stato girato dal giovane regista tedesco David Wnendt e riprende la trama del libro di Vermes, in cui Hitler viene scambiato per un comico che fa la parodia di Hitler e che in breve tempo diventa, grazie a una serie di video su YouTube, un personaggio televisivo di successo. Molte scene sono state girate come delle vere e proprie candid camera: il regista seguiva Olivier Masucci, l’attore tedesco che ha interpretato Hitler, mentre girava tranquillamente per le strade di Berlino con la divisa da nazista e i famosi baffetti, per registrare la spontanea reazione delle persone comuni.

In Germania il libro ha venduto più di un milione e 400mila copie, è stato tradotto in più di 40 lingue e anche in Italia ha avuto un discreto successo. Lo scorso weekend, quand’è uscito, il film ha avuto parecchio successo: ha incassato circa tre milioni di euro e superato Inside Out nella classifica dei film più visti in Germania.

Questo è un episodio del sesto capitolo del libro, quando Hitler entra nella Lavanderia blitz di Yilmaz.

Timur Vermes, Lui è tornato, Bompiani, Milano

***

I primi passi furono difficili. Non perché mi mancassero le forze, ma con indosso quei vestiti prestati mi sentivo l’ultimo degli idioti. I pantaloni e la camicia potevano ancora andare. Il giornalaio mi aveva portato un paio di calzoni puliti di cotone blu che lui chiamava “giins”, e una camicia di cotone a quadri rossi, fresca di bucato. In realtà avevo sperato in un abito e un cappello, ma osservando bene il giornalaio dovetti concludere che mi ero illuso. Nella sua edicola, il mio ospite non indossava giacca e cravatta e, per quel che avevo potuto osservare, anche la sua clientela non prediligeva gli abiti borghesi. Il cappello – lo dico solo per amor di completezza – era evidentemente un capo sconosciuto. Decisi di conferire al mio abbigliamento quanta più dignità possibile ricorrendo ai modesti mezzi a mia disposizione. Infilai la camicia dentro i pantaloni, molto in profondità, contrariamente alla bizzarra idea del giornalaio che mi suggerì di indossarla semplicemente fuori dai “giins”. Con la mia cintura riuscii a sistemare i calzoni per bene: erano un poco larghi, ma ben tesi. Poi fissai lo spallaccio sulla spalla destra. Il risultato finale non era certo paragonabile all’uniforme nazista ma, nel complesso, davo almeno l’impressione di un uomo vestito decorosamente.
Le scarpe invece rimasero un problema. Il giornalaio dichiarò che nessuno tra i suoi conoscenti portava il numero giusto e per questo ne aveva chieste un paio in prestito a suo nipote, ma non ero sicuro di poterle chiamare “scarpe”. Erano bianche, gigantesche, con delle enormi suole che conferivano a chi le indossava un’andatura da clown. Dovetti fare uno sforzo per non scagliare le ridicole scarpe sulla testa di quel rimbecillito del giornalaio.
“Non le metterò,” dissi con decisione. “Con queste ai piedi sembrerò un pagliaccio!”
L’edicolante, probabilmente offeso, ribatté che anche lui non era d’accordo con il mio modo di portare la camicia, ma non ci feci caso. Avvolsi la gamba dei pantaloni intorno ai polpacci e infilai i “giins” nei miei stivali.
“Ce la mette proprio tutta per non sembrare una persona normale?”
“Dove sarei adesso, se avessi sempre fatto come la cosiddetta gente normale?” ribattei.
“E dove sarebbe la Germania?” “Ehm…” disse il giornalaio in tono più pacato, e si accese un’altra sigaretta. “Si può vederla anche così.”
Piegò la mia uniforme e la infilò in un sacchetto che attirò la mia attenzione. La cosa strana non era tanto il materiale di cui era fatto – un tipo di plastica molto sottile e, evidentemente, molto più resistente e flessibile della carta. Interessante era piuttosto la scritta che vi era stampata sopra: “Media World”. A quanto pareva il sacchetto, in precedenza, era stato utilizzato per imballare quel giornale idiota che avevo visto sotto la panchina. Questo dimostrava che in fondo l’edicolante era una persona razionale: aveva conservato l’utile involucro, ma si era disfatto del contenuto demente. L’uomo mi diede il sacchetto, mi indicò la strada per la lavanderia e disse allegro: “Buon divertimento!”
Così mi incamminai diretto al negozio. I miei passi mi ricondussero al campo dove mi ero svegliato. Nonostante il mio carattere intrepido, non potevo negare di nutrire la vaga speranza che qualcuno mi avesse accompagnato nel mio viaggio dal passato al presente. Ritrovai la panchina familiare sulla quale mi ero riposato il primo giorno, attraversai la strada con molta prudenza e imboccai il viottolo tra le case che conduceva al campo incolto. Era tarda mattinata e c’era silenzio. I ragazzi della Gioventù hitleriana non stavano giocando, probabilmente erano a scuola. Il campo era deserto. Con il sacchetto in mano, mi avvicinai esitante alla pozza accanto alla quale mi ero svegliato e che ormai si vedeva appena. Era tutto molto tranquillo – in ogni caso quanto può esserlo un campo in una metropoli. Udii il rumore del traffico in lontananza, ma anche il ronzio di un bombo.
“Psst,” dissi. “Psst!”
Non successe niente.
“Bormann,” chiamai sottovoce. “Bormann! È qui in giro?” Una folata di vento spazzò il campo, due barattoli vuoti sbatacchiarono l’uno contro l’altro ma, a parte questo, non successe niente. “Keitel?” gridai adesso. “Goebbels?”
Non rispose nessuno. Orbene. Era addirittura meglio così. Il forte è più potente quando è solo. Questa massima valeva ora più che mai, proprio come un tempo. Adesso era tutto più chiaro. Dovevo salvare il popolo da solo. La Terra e l’umanità. E il primo passo di quel fatale cammino conduceva in lavanderia.
Con il mio sacchetto in mano, tornai deciso al mio vecchio banco di scuola, sul quale avevo imparato la lezione più preziosa della mia vita: la strada. Seguii il tragitto con attenzione, misi a confronto strade e palazzi, verificai, soppesai, ponderai, azzardai. Il primo bilancio fu molto positivo: il paese, o perlomeno la città, era libera dalle macerie e ordinata; nel complesso era possibile affermare che era tornata a un soddisfacente stato prebellico. Le nuove automobili erano evidentemente affidabili, più silenziose di un tempo, anche se esteticamente non soddisfacevano i gusti di tutti. Tuttavia, la cosa che più balzava agli occhi, erano i tanti irritanti scarabocchi presenti su tutti i muri. Senza dubbio quella tecnica non mi era nuova: già ai miei tempi, a Weimar, alcuni complici dei comunisti avevano scarabocchiato ovunque le loro insulsaggini bolsceviche. E io stesso avevo imparato molto da quel tipo di propaganda. Allora, tuttavia, gli slogan di entrambe le fazioni erano ancora decifrabili. Adesso, invece, constatai che numerosi messaggi – che l’autore, evidentemente, reputava abbastanza importanti da deturpare con essi le facciate degli onesti cittadini – non erano comprensibili. Potevo solo sperare che questo dipendesse dallo scarso livello culturale di quelle canaglie di sinistra, ma quando mi accorsi che, continuando il mio cammino, la leggibilità dei messaggi non migliorava, fui costretto a supporre che quelle scritte nascondessero anche dei contenuti importanti, come Germania risvegliati oppure Sieg Heil! Di fronte a tanto dilettantismo sentii ribollire dentro di me una violenta collera. Mancava evidentemente una guida decisa, una organizzazione rigida. Questa conclusione era particolarmente spiacevole soprattutto se si considerava che la realizzazione di quelle scritte aveva richiesto l’impiego di molta vernice ed evidente fatica. Oppure, durante la mia assenza, erano stati realizzati caratteri speciali per gli slogan? Decisi di approfondire la questione e mi avvicinai a una signora che camminava tenendo per mano un bambino.
“Perdoni il disturbo, gentile signora,” la apostrofai. Con la mano libera indicai a caso una delle scritte sul muro e le chiesi: “Che cosa c’è scritto lì?”
“E che ne so?” chiese la signora scrutandomi con uno strano sguardo.
“Quindi questi caratteri appaiono bizzarri anche a lei?” volli sapere ancora.
“Sì, e non solo i caratteri,” disse la signora con esitazione. Poi proseguì trascinando per mano il bambino. “È sicuro di star bene?”
“Non si preoccupi,” dissi. “Faccio solo un salto in lavanderia.” “Farebbe meglio ad andare dal parrucchiere!” mi gridò la donna.
Voltai la testa di lato, mi chinai all’altezza del finestrino di una di quelle moderne automobili e mi osservai. La scriminatura era a posto – anche se non proprio perfetta – e sicuramente nei prossimi giorni avrei dovuto scorciare un po’ i baffi; nel complesso, tuttavia, almeno per il momento, una seduta dal barbiere non avrebbe deciso l’esito della guerra. Giudicai, inoltre, che con tutta probabilità l’indomani mattina o la sera sarebbero stati i momenti strategicamente più adatti per un’accurata pulizia corporale. Così mi rimisi in cammino, fiancheggiando quella onnipresente propaganda murale che, per quanto ne sapevo, poteva essere scritta anche in cinese.
Adesso però mi balzò agli occhi la gran quantità di ricevitori di cui era stata fornita la popolazione. A quasi ogni finestra era fissata un’antenna radar, destinata senza dubbio alla ricezione dei programmi della radiodiffusione. Se fossi riuscito a parlare di nuovo alla radio, oggi sarebbe stato facile guadagnare il consenso di nuovi, convinti connazionali. Infatti, non avevo forse tentato invano di ascoltare un programma radiofonico che trasmetteva pezzi che parevano eseguiti da musicisti ubriachi e i cui annunciatori balbettavano cose incomprensibili come le scritte scarabocchiate sui muri? A me sarebbe bastato parlare un tedesco comprensibile: una quisquilia. Di buon umore e fiducioso proseguii a grandi passi. E poco dopo vidi non molto lontana l’insegna: lavanderia blitz di Yilmaz.
Rimasi interdetto.
Era vero che i tanti quotidiani mi avevano già fatto presumere che vi fossero dei lettori turchi, anche se non avevo ancora chiarito le circostanze della loro presenza a Berlino. E strada facendo avevo notato l’uno o l’altro passante, la cui origine ariana continuava a essere a dir poco dubbia non solo dopo quattro o cinque generazioni, ma anche nell’ultimo quarto d’ora. Tuttavia, anche se non era chiaro quali attività svolgessero quegli individui di razza straniera, non davano l’impressione di occupare posizioni dirigenziali. Anche per questo motivo era difficile immaginare che avessero rilevato delle piccole aziende, addirittura ribattezzandole. Secondo la mia esperienza, nemmeno le motivazioni dettate dalla propaganda economica erano in grado di spiegare l’associazione di “Lavanderia Blitz” con il nome “Yilmaz”. Da quando in qua “Yilmaz” era sinonimo di camicie pulite? Un “Yilmaz” garantiva semmai per il funzionamento più o meno soddisfacente di un vecchio carretto. Non vidi, però, un’altra lavanderia. E infine dovevo mettere sotto pressione l’avversario politico giocando di rapidità. Per questo avevo bisogno di un lavaggio “blitz”. Pur carico di dubbi, entrai spedito nella lavanderia.
Il mio ingresso fu salutato dal suono distorto di un carillon. C’era odore di detersivo ed era caldo, troppo caldo per me che indossavo una camicia di flanella – ma purtroppo le straordinarie uniformi degli Afrikakorps non erano al momento disponibili. Nel negozio non c’era nessuno. Sul bancone notai un campanello, del tipo di quelli che si vedono sovente negli hotel.
Non successe niente.
Udii con chiarezza una piagnucolosa musica orientale provenire dal laboratorio sul retro; probabilmente una lavandaia dell’Anatolia stava rimpiangendo la sua patria lontana: un atteggiamento alquanto bizzarro, soprattutto se si aveva la fortuna di vivere nella capitale del Reich. Osservai i capi di abbigliamento appesi in bella fila dietro il bancone. Erano avvolti in un materiale trasparente, non dissimile a quello di cui era fatto il mio sacchetto. A quanto pareva, serviva ad avvolgere ogni sorta di oggetto. Avevo già visto qualcosa di simile in alcuni laboratori chimici, tuttavia, la ig Farben negli ultimi anni aveva fatto notevoli passi avanti. Per quanto ne sapevo la produzione di quella sostanza dipendeva in gran parte dalla quantità di petrolio posseduta ed era quindi molto costosa. Tuttavia dall’ampio utilizzo della plastica – e a giudicare dalla quantità di automobili in circolazione – ne deducevo che il petrolio non era più un problema. Forse il Reich aveva mantenuto il possesso dei giacimenti rumeni? Improbabile. Possibile che alla fine Göring avesse trovato delle nuove fonti sul suolo nazionale? Un riso amaro mi salì in gola: Göring! Più che il petrolio in Germania avrebbe trovato l’oro nel suo naso. Quell’inetto morfinomane! Chissà che ne era stato di lui. Era più probabile che dopo la guerra si fosse ricorsi ad altre risorse e…”
“Lei aspettare da molto?”
Un uomo dell’Europa meridionale, con gli zigomi orientali, fece capolino da un corridoio sul retro.
“Certamente!” dissi indignato. “Perché lei non suonare?” Indicò il campanello sul bancone e lo pigiò leggermente con la mano aperta. Il campanello suonò.
“Avevo già suonato qui!” dissi risolutamente aprendo la porta d’ingresso. Ancora una volta si sentì vibrare quello strano carillon distorto.
“Deve suonare qui!” disse l’uomo con indifferenza e diede un altro lieve colpo al campanello sul bancone.
“Un tedesco suona solo una volta,” dissi irritato.
“Allora suonare solo qui,” ribatté quel meticcio di grado incerto scampanellando di nuovo con il palmo della mano.
All’improvviso ebbi una gran voglia di mandargli le sa a lacerargli un timpano con il suo campanello. O meglio ancora: tutti e due – così in futuro avrebbe spiegato ai suoi clienti come dovevano gesticolare quando entravano nel suo negozio. Sospirai. Mi rincresceva molto di dover rinunciare anche alle più semplici squadre ausiliarie. Ma ero costretto a rimandare la faccenda fino a quando non avessi raddrizzato un paio di cose in questo paese; tuttavia, nella mia mente cominciai già a fare una lista dei sabotatori – e la lavanderia blitz di yilmaz era proprio in cima. Nel frattempo non mi restò altro che allontanare il campanello dalla portata dell’uomo. Ero furibondo.
“Dica un po’,” chiesi brusco, “lavate anche i vestiti qui? Oppure, là da dove viene, in un lavasecco si svolge esclusivamente un’attività musicale?”
“Lei cosa volere?”
Misi il sacchetto sul banco e tirai fuori l’uniforme. L’uomo fiutò leggermente l’aria, poi disse: “Ah, lei benzinaio,” e prese imperturbabile la mia divisa.
Avrebbe dovuto essermi indifferente ciò che pensava un non-elettore qualsiasi, per di più di razza straniera. Tuttavia non riuscii a far finta di niente. D’accordo, quell’uomo non era tedesco, ma possibile che fossi finito così nell’oblio? D’altronde, in passato il popolo mi aveva visto per lo più sulle foto dei giornali, che di solito mi ritraevano da un’angolazione particolarmente vantaggiosa. E spesso, quando si incontra un personaggio famoso, ci si sorprende di quanto sia diverso visto di persona.
“No,” dissi con decisione. “Io non sono un benzinaio.”
E così dicendo alzai leggermente lo sguardo e guardai un poco oltre l’uomo, per mostrargli chiaramente il mio profilo più fotogenico, così che capisse chi aveva davanti. L’uomo mi osservò più per cortesia che per vero interesse, tuttavia mi parve che non gli fossi del tutto estraneo. Si sporse in avanti, sul bancone, e guardò i miei pantaloni impeccabilmente infilati dentro gli stivali.
“Io non sapere… Lei famoso pescatore?”
“Faccia uno sforzo, che diamine,” esclamai con energia e non poca delusione. Persino il giornalaio – che sicuramente non era un genio – aveva dimostrato di avere delle conoscenze di base. Ci mancava solo questo! Come avrei fatto a tornare alla cancelleria del Reich se nessuno mi riconosceva?
“Momento,” disse lo stupido immigrato. “Io chiamare figlio. Lui guardare sempre televisione, sempre su Internet: lui sapere tutto. Mehmet! Mehmet!”
Non passò molto tempo che dal retro spuntò questo Mehmet. Un adolescente alto, sommariamente pulito, arrivò strascicando i piedi accompagnato da un amico o dal fratello. Il patrimonio genetico di questa famiglia non era da sottovalutare; i due ragazzi indossavano i vestiti smessi dai fratelli che erano ancora più alti di loro: dei veri giganti. Camicie grandi come lenzuola, pantaloni incredibilmente larghi.
“Mehmet,” disse il suo genitore indicandomi.
“Tu conoscere lui?”
Un lampo attraversò gli occhi di quel fanciullo, che ormai non si poteva più chiamare tale.
“Ehi, accidenti, vecchio! Chiaro! È il tizio che fa sempre quella roba sui nazi…”
Be’, almeno questo! Senza dubbio la definizione era un po’ informale, tuttavia non era del tutto inappropriata.
“Si chiama Nazionalsocialismo,” lo corressi benevolmente. “È corretto dire anche ‘Politica nazionalsocialista’.” Soddisfatto, guardai convinto nella direzione di lavanderia blitz di yilmaz.
“Questo è quello che fa Stromberg,” disse Mehmet deciso.
“Che figata,” esclamò il suo compagno.
“Stromberg nella nostra lavanderia!”
“Noo,” si corresse Mehmet. “Questo è l’altro Stromberg.”
“Che cannonata,” il camerata modificò leggermente la dichiarazione precedente. “L’altro Stromberg! Nella nostra lavanderia!” Avrei obiettato volentieri qualcosa, ma devo confessare che ero semplicemente troppo scosso per farlo. Chi sarei stato, secondo loro? Un benzinaio? Un pescatore? Un altro cosa?”
“Mi fa un autografo?” chiese Mehmet tutto contento.
“Ehi, signor Stromberg, uno anche per me,” chiese il camerata. “E una foto!” Così dicendo agitò un piccolo apparecchio nella mia direzione come se io fossi un bassotto e l’apparecchio un ghiotto biscotto.
C’era da mettersi le mani nei capelli.
Mi feci rilasciare una ricevuta, sopportai pazientemente di fare ancora una foto ricordo insieme a quegli strani ragazzi e uscii dalla lavanderia Blitz, non senza aver apposto la mia firma su due fogli di carta da pacchi con una penna colorata che mi era stata data appositamente. Ci fu anche un breve momento di crisi nella produzione di autografi, quando mi rimproverarono di non essermi firmato “Stromberg”.
“Ah, ma è chiaro!” Disse il camerata conciliante, sebbene non fosse evidente se voleva tranquillizzare Mehmet o me. “Questo non è affatto Stromberg!”
“È vero,” gli venne in aiuto Mehmet. “Non lo è. Lei è quell’altro.”
Devo ammettere che avevo sottovalutato l’entità del mio compito. Dopo la prima guerra mondiale, almeno, ero un uomo anonimo che veniva dal popolo. Adesso ero il signor Stromberg, però quell’altro. L’uomo che faceva sempre cose nazi e non importava quale nome scrivesse su un foglio di carta da pacchi.
Doveva succedere qualcosa.
E alla svelta.

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