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  • Giovedì 29 ottobre 2015

La vita in una prigione dell’ISIS

Il New York Times ha sentito alcuni dei prigionieri liberati nel raid americano di giovedì: hanno raccontato come si vive, perché si finisce in prigione e le violenze subite

Un uomo mascherato fa la guardia a un edificio di Fallujah, Iraq (AP Photo)
Un uomo mascherato fa la guardia a un edificio di Fallujah, Iraq (AP Photo)

Il New York Times ha raccolto le testimonianze di alcuni fra i 69 prigionieri dell’ISIS liberati nel corso di un raid avvenuto il 22 ottobre a Hawija, un paese nel nordest dell’Iraq, e condotto da forze speciali curde e americane. Del raid si è parlato molto: è stato il primo in cui la Delta Force, un’unità anti terrorismo dell’esercito degli Stati Uniti che in passato ha già compiuto diversi raid contro l’ISIS, ha collaborato con unità speciali curde per un’operazione di terra, cosa che fa presagire un maggiore impegno dell’esercito americano nelle operazioni di terra contro l’ISIS (nel raid è anche morto un soldato americano: non accadeva dal 2011, in Iraq).

I prigionieri contattati dal New York Times hanno raccontato nel dettaglio le condizioni di vita e le violenze subite in prigione e dagli abitanti di Hawija, città controllata dall’ISIS con metodi molto duri nonostante sia abitata in maggioranza da musulmani sunniti (lo stesso ramo dell’Islam a cui aderiscono i miliziani dell’ISIS). I loro racconti sono piuttosto impressionanti e ricordano molto le descrizioni delle condizioni di vita degli ostaggi occidentali imprigionati dall’ISIS riportate nell’ottobre dal 2014 dalla giornalista Rukmini Maria Callimachi sul New York Times: si parla di arresti ingiustificati, angherie, pestaggi e torture commesse dai miliziani dell’ISIS sui prigionieri e sugli abitanti di Hawija.

Muhammad Abd Ahmed, un uomo di 35 anni che era fra i prigionieri liberati giovedì, ha raccontato che l’ISIS conquistò Hawija nel 2014, e che offrì 50 dollari a qualsiasi uomo sunnita si fosse aggregato a loro, quindi impose norme di comportamento piuttosto severe al resto degli abitanti in città, per cui la vita è rimasta da allora parecchio complicata. Scrive il New York Times:

Ahmed ci ha raccontato che i miliziani andarono casa per casa a sequestrare denaro e armi. Tutti i prigionieri invece hanno descritto diverse severe restrizioni imposte dai miliziani. I cittadini di Hawija sono stati istruiti nei dettagli su cosa indossare – i pantaloni degli uomini dovevano avere il risvolto sopra la caviglia, ad esempio – e su come posizionare le proprie mani e dita durante le preghiere. Disobbedire o prestare poca attenzione agli ordini provocava sospetti o pestaggi. Anche provare ad andarsene dalla zona controllata dall’ISIS poteva portare a severe punizioni, ha raccontato un altro prigioniero.

Secondo il racconto di diversi prigionieri liberati, ad Hawija si finiva in prigione per motivi perlopiù indiretti o semplici pretesti. Muhammad Hassan Abdullah al Jibouri, uno dei prigionieri liberati, ha detto di essere stato imprigionato per ritorsione assieme a tre dei suoi fratelli maggiori, suo padre e alcuni suoi cugini perché in precedenza suo fratello minore era scappato da una prigione dell’ISIS (era stato imprigionato a suo volta perché sospetto: era un insegnante di inglese ad Hawija). Ahmed Mahmud Mustafa Mohammad, uno dei prigionieri liberati che prima dell’arrivo dell’ISIS aveva collaborato con l’esercito americano come contractor, ha raccontato di essere stato messo in prigione per aver litigato con un altro abitante di Hawija per un problema di soldi: per risolvere la questione, l’uomo lo denunciò a un cugino miliziano dell’ISIS, che lo fece arrestare. Saad Khalif Ali Faraj, un poliziotto di 32 anni, ha detto di avere attirato l’attenzione dei miliziani dell’ISIS perché una delle sue due mogli è curda. Faraj ha anche raccontato che uno dei suoi fratelli era stato decapitato dall’ISIS proprio perché considerato una persona sospetta.

La vita nella prigione era ancora più dura: ad Hawija l’ISIS aveva messo in piedi una estesa rete di prigioni – uno dei prigionieri ha ricordato di essere stato tenuto nella “prigione numero 8” – perlopiù molto affollate. Secondo i racconti dei prigionieri, i miliziani non permettevano loro di uscire, li torturavano regolarmente e davano loro da mangiare solamente del pane. In una cella una televisione trasmetteva video di decapitazioni compiute dall’ISIS, che i prigionieri venivano costretti a guardare. Le torture venivano praticate anche da sole, senza che fossero accompagnate da un interrogatorio, e prevedevano pestaggi con canne di plastica, elettroshock e soffocamenti con sacchetti di plastica, a volte praticati finché il prigioniero non sveniva.

Diversi prigionieri hanno inoltre raccontato che dopo la cattura veniva richiesta una specie di confessione: al Jibouri ha raccontato che i miliziani scoprirono i contatti di due soldati americani nella rubrica telefonica del suo cellulare. Al Jibouri ha detto di avere inizialmente negato di avere legami con l’esercito americano, ma che la sua presa di posizione gli fece ottenere solamente altri pestaggi e torture. Al Jibouri ha spiegato di aver pensato: «se confesso, mi ammazzeranno. Se continuo a negare, mi picchieranno finché non otterranno una confessione, per poi ammazzarmi». Secondo il New York Times «Muhammad Abd Ahmed è stato picchiato così a lungo che decise di mettere fine alle violenze firmando una confessione con le sue impronte digitali, nonostante sapesse che stava certificando la sua morte».

Poco prima del raid curdo e americano, Faraj era stato avvisato dall’ISIS che sarebbe stato condannato di lì a poche ore: aveva passato quella notte a scrivere una lettera a suo nipote in cui lo avvisava di non cercarlo, per non correre ulteriori rischi. Poche ore dopo, è stato salvato dalle forze speciali americane e curde.

Jibouri, un altro dei prigionieri, ha detto di essere grato agli Stati Uniti e di aver pregato per il soldato morto nel raid: allo stesso tempo però ha detto di essere triste perché sua moglie e suo figlio si trovano ancora a Hawija, che anche dopo il raid è rimasta sotto il controllo dell’ISIS.

L’ISIS attualmente controlla ancora una vasta zona che comprende il nordest della Siria e parte dell’Iraq. Nelle ultime settimane si sono intensificati i bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti che combatte l’ISIS, a cui si sono aggiunti i controversi bombardamenti dell’aviazione russa.

isis