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  • Giovedì 22 ottobre 2015

Dobbiamo credere alle teorie complottiste sulla morte di bin Laden?

No, spiega il Washington Post confutando un recente e molto discusso articolo del New York Times magazine

di Greg Miller - Washington Post

Osama bin Laden nel suo nascondiglio a Bora Tora, in Afghanistan. 
(Foto presentata dell'Ufficio del procuratore generale degli Stati Uniti)
Osama bin Laden nel suo nascondiglio a Bora Tora, in Afghanistan. (Foto presentata dell'Ufficio del procuratore generale degli Stati Uniti)

Cosa sappiamo veramente della morte di Osama bin Laden? Il modo in cui la domanda è stata affrontata questa settimana in un articolo provocatorio del New York Times magazine potrebbe lasciare con la desolante impressione che i fatti attorno alla morte del leader di al Qaida siano ancora molto poco chiari. L’articolo, scritto dal giornalista Jonathan Mahler, sostiene che la verità dietro all’operazione che portò alla morte di bin Laden è stata sepolta sotto una valanga di ambiguità del governo americano. La versione ufficiale è stata alimentata dai media e dalla credulità dell’opinione pubblica, incapace di coglierne la sua “improbabilità assurda”. Mahler conclude scrivendo: «Non è che la verità sulla morte di bin Laden sia inconoscibile; è che noi non la sappiamo. E non possiamo nemmeno consolarci con la speranza che avremo presto più risposte».

Mahler si sbaglia. Sappiamo molte cose sulla morte di bin Laden e sull’operazione che l’ha causata. Da poco dopo l’operazione, compiuta nel maggio del 2011, siamo a conoscenza della cronologia degli eventi principali. La maggior parte dei dettagli è emersa da decine di rapporti, libri e documentari successivi che non hanno fatto altro che rafforzare l’accuratezza del racconto ufficiale. È vero che ci sono ancora alcune domande riguardo alla caccia di bin Laden e dettagli che sono ancora oggi discussi, per esempio quale membro dei SEAL sparò il primo colpo mortale che uccise il capo di al Qaida. Ma la realtà è che governi antagonisti, agenzie di sicurezza e organizzazioni di news che competono tra loro sono d’accordo nel riconoscere come veri i fatti principali forniti dalla ricostruzione ufficiale: per esempio che bin Laden fu ucciso in un attacco condotto delle forze speciali statunitensi dopo una caccia all’uomo durata 10 anni, e che l’operazione americana fu compiuta senza che il governo pakistano ne fosse a conoscenza o cooperasse in qualche misura.

Mahler mette in dubbio la ricostruzione ufficiale con teorie della cospirazione e giochi di prestigio. Per esempio si concentra sui dettagli contrastanti che le organizzazioni di news, i magazine, i libri e i film hanno fornito sull’operazione che portò alla cattura di bin Laden. Mahler ignora però che al di là delle inevitabili discrepanze quasi tutti accettano la ricostruzione sui fatti principali.

Mahler cita per esempio le critiche che la commissione intelligence del Senato americano fece riguardo a un possibile uso della tortura come metodo usato dalla CIA per trovare bin Laden, nello stesso modo suggerito dal film Zero Dark Thirty. Non spiega però come mai sei anni di indagini del Senato non si siano imbattute in uno degli altri supposti problemi sulla storia della morte di bin Laden che avrebbero richiesto bugie da parte di funzionari del governo degli Stati Uniti, da Obama in giù. E questo conduce al secondo schema usato da Mahler. Il modo in cui costruisce tutto il suo articolo attorno alle idee del più aggressivo tra gli scettici sulla storia di bin Laden: Seymour Hersh.

All’inizio di quest’anno Hersh ha presentato un’elaborata storia alternativa dell’operazione che portò all’uccisione di bin Laden. L’articolo – che è stato pubblicato sul London Review of Books – descrive come una farsa l’attacco americano: ne parla come una serie di eventi preparati e compiuti dal Pakistan e dagli Stati Uniti allo scopo di nascondere accordi e piani segreti degni della SPECTRE, l’organizzazione criminale immaginaria della saga di James Bond. L’articolo di Hersh è stato analizzato da decine di organizzazioni di news, nessuna delle quali è riuscita a trovare sostegno per le sue affermazioni. La carenza di fonti e i problemi di logica interna sono stati studiati e spiegati nel dettagli in diversi articoli, come questo di Vox.

Mahler riporta l’opinione di altri giornalisti rispettati, in un modo comunque rapido e quasi sprezzante. Ma Hersh è descritto come un protagonista solitario e coraggioso alla ricerca della verità su bin Laden, e a lui va lo spazio maggiore e le migliori battute. Dopo avere pubblicato Black Hawk Down, lo scrittore Mark Bowden ha scritto un libro per descrivere nel dettaglio l’operazione che portò all’uccisione di bin Laden. Bowden ha poi ricevuto una telefonata da Hersh che voleva dirgli che la ricostruzione fatta nel libro era completamente sbagliata. Hersh gli ha mostrato anche empatia, dicendo una cosa esasperante per la sua condiscendenza: «A nessuno piace essere preso in giro».

Mahler presenta la versione di Hersh come una delle parecchie teorie che circolano sulla morte di bin Laden, sullo stesso piano delle idee di Bowden, di Nicholas Schmidle – giornalista del New Yorker – e dei team che si occupano di sicurezza nazionale al New York Times e al Washington Post. Ma la versione di Hersh non è solo una delle tante, in attesa di essere verificata dalla storia. È una teoria radicale e priva di fondamento, in contrasto con ogni altra credibile ricostruzione della ricerca di bin Laden. L’articolo di Mahler riprende la logica problematica già presente nelle teorie di Hersh, tra cui l’affermazione che il presidente Obama non voleva rendere pubblica la missione di Abbottabad – la città pakistana dove si era nascosto bin Laden, e dove poi fu ucciso – e aveva invece pianificato di rivelare la morte di bin Laden settimane o mesi dopo, attribuendola a un attacco con i droni. L’ipotesi è che il piano originale non fu rispettato dopo che uno degli elicotteri usati nell’operazione si schiantò, fatto che secondo Hersh rese impossibile mantenere l’operazione segreta. In altre parole: nascondere un attacco di elicotteri nel mezzo di una città pakistana si poteva fare, ma coprire il fatto che uno di questi elicotteri era stato abbattuto era al di là delle capacità dei due governi cospiratori.

Mahler ha scritto: «La versione di Hersh non ci richiede di credere nella possibilità di una ampia cospirazione governativa». Come ha notato Bowden in una appassionata risposta su Vanity Fair, questo è invece esattamente quello che richiede. Mahler si aggiunge a una lista molto estesa di revisionismo irresponsabile che include film recenti come Kill the Messenger (La regola del gioco, in italiano), basato tra le altre cose su un libro molto contestato del giornalista americano Gary Webb, e Truth, che la storia di un altro contestato giornalista americano, Dan Rather: entrambi i film sono un tentativo di riabilitare lavori giornalistici molto screditati.

È la seconda volta che il New York Times magazine pubblica un articolo lungo sulla storia di bin Laden che di fatto mette in dubbio il lavoro esteso del più che rispettato team dello stesso giornale che si occupa di sicurezza nazionale. Lo scorso anno il magazine pubblicò un estratto dal libro di Carlotta Gall, corrispondente del Times, che parlava di un’ipotetica complicità pakistana nell’operazione per la cattura di bin Laden. Se gli editori del giornale credono davvero che i loro articoli su bin Laden contengano imperfezioni e inesattezze è strano che i dubbi non vengano portati all’attenzione del lettore sulla prima pagina del giornale. Come dice Hersh, a nessuno piace essere preso in giro.

©Washington Post 2015

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