Il nuovo grande studio sulla schizofrenia

È il più importante mai realizzato negli Stati Uniti: conferma che è meglio ridurre i farmaci e puntare sul dialogo con un terapista

(Klaus Rose/picture-alliance/dpa/AP Images)
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I pazienti schizofrenici che ricevono dosi inferiori di farmaci antipsicotici rispetto al normale, compensando con il dialogo con un terapista e con il sostegno della famiglia, riescono a tenere la malattia sotto controllo molto più efficacemente rispetto a chi segue protocolli di cura tradizionali con alte dosi di farmaci. Questa tesi, nota da tempo ai ricercatori, è stata ulteriormente confermata con la pubblicazione del più accurato e meticoloso studio sul trattamento della schizofrenia mai realizzato negli Stati Uniti, dove da anni si discute di nuove leggi per migliorare le strutture sanitarie in cui sono ricoverate le persone con particolari disturbi mentali.

Il nuovo studio è legato al Recovery After an Initial Schizophrenia Episode (RAISE), un progetto realizzato dal National Institute of Mental Health (NIMH), la struttura pubblica che fa parte dell’agenzia governativa che si occupa della salute negli Stati Uniti. La ricerca è durata sei anni e ha analizzato gli effetti sui pazienti e la letteratura già esistente circa i trattamenti precoci per le persone affette da schizofrenia. Lo studio è in parte basato sulle esperienze degli ultimi decenni di altri centri per il trattamento delle malattie mentali, soprattutto nei paesi scandinavi, dove da tempo si attuano terapie che prevedono un minore ricorso ai farmaci con un’assistenza psicologica più intensa, che coinvolge anche le famiglie dei pazienti.

Cos’è la schizofrenia
È difficile definire la schizofrenia in poche parole, perché con questo termine vengono intesi diversi comportamenti mentali anomali e patologici. Semplificando, è una malattia che porta a una costante alterazione del pensiero e del comportamento, in forme quasi sempre croniche che portano chi ne soffre a vivere un forte disadattamento. Ci sono vari livelli di gravità della malattia, che causa allucinazioni uditive, deliri paranoidi e discorsi disorganizzati. La schizofrenia viene diagnosticata osservando il comportamento del soggetto che potrebbe soffrirne ed elaborando, in seguito, una terapia che spesso prevede l’utilizzo di farmaci antipsicotici, che sopprimono i ricettori di neurotrasmettitori come la dopamina e la serotonina.

I farmaci consentono di solito di tenere sotto controllo i sintomi, ma causano effetti collaterali tra cui aumento di peso, tremori e costante stanchezza. Il problema è che i pazienti, a causa della loro condizione, non sempre collaborano e diventa quindi difficile proseguire la terapia e mantenerne gli effetti positivi. In Italia si stima che ci siano almeno 150mila persone affette da schizofrenia, negli Stati Uniti sono circa 2 milioni.

La nuova ricerca
La ricerca finanziata dal NIMH è stata pubblicata sulla rivista scientifica The American Journal of Psychiatry e, secondo diversi esperti, potrebbe essere la base per rivedere le linee guida per trattare la schizofrenia. Lo studio mette in evidenza due elementi essenziali: il trattamento precoce all’emergere dei primi sintomi e l’impiego di terapie che coinvolgano di più il paziente, senza limitarsi alla somministrazione di antipsicotici. Sistemi di cura simili sono già impiegati in diversi paesi del mondo, compresa l’Italia, dove dal 2007 il ministero della Salute ha iniziato ad aggiornare le linee guida per gli interventi precoci nella schizofrenia.

Secondo i ricercatori è essenziale che i pazienti inizino le terapie ai primi episodi psicotici, che di solito si presentano nella tarda adolescenza o intorno ai 20 anni di età, con comportamenti che talvolta sono sottovalutati perché poco ricorrenti e isolati nel tempo (la diagnosi è delicata perché può essere confusa con altri disturbi come eccessi d’ansia e depressione). Prima si inizia la terapia, dice lo studio, prima si ottengono risultati soddisfacenti. Non si tratta di un’osservazione così scontata: negli Stati Uniti in media trascorrono 18 mesi tra il primo episodio psicotico e il momento in cui viene iniziata la somministrazione dei trattamenti.

I test
Lo studio riconosce l’importanza dei farmaci antipsicotici, che funzionano molto bene su alcuni pazienti, ma non tutti ne tollerano gli effetti collaterali. Basandosi su esperienze realizzate in altri paesi, come l’iniziativa “Dialogo aperto” in Finlandia, i ricercatori hanno verificato l’efficacia di un approccio diverso a quello con i classici dosaggi di farmaci. I test sono stati realizzati in 34 cliniche, in 21 stati, nelle quali a seconda dei casi sono state somministrate le classiche terapie o quelle con meno medicinali.

Nel secondo caso, i terapisti hanno ridotto il più possibile le dosi degli antipsicotici (fino alla metà), in modo da ridurre gli effetti collaterali, affiancando altre soluzioni per assistere i pazienti. Il piano ha compreso l’analisi degli impieghi o delle scuole più adatte a seconda dei sintomi presentati da ogni partecipante. Alle famiglie dei pazienti sono stati offerti corsi per comprendere meglio la malattia dei loro parenti e aiutarli ad affrontarla. I pazienti sono stati sottoposti a sedute più lunghe e articolate in cui dialogare con i terapisti, che li hanno aiutati a conoscere e a gestire meglio i loro sintomi, soprattutto per quanto riguarda le allucinazioni. Uno dei consigli è, per esempio, ignorare le voci che i pazienti sentono nella loro testa, o di rispondere per scacciarle.

I test hanno interessato in tutto 404 persone al loro primo episodio psicotico, quasi tutte con una ventina d’anni. Circa metà ha ricevuto il nuovo trattamento combinato, mentre l’altra metà è stata sottoposta alle normali terapie. Nei mesi iniziali il primo gruppo ha dato risultati deludenti rispetto al secondo; dopo due anni gli effetti tra i due gruppi erano praticamente uguali e alla fine della ricerca i pazienti del primo gruppo hanno mostrato di avere nel complesso meno sintomi e di stare meglio. E tutto questo con una dose ridotta di antipsicotici, tra il 20 e il 50 per cento in meno rispetto all’altro gruppo.

La ricerca ha rischiato più volte di non essere completata, proprio per la difficoltà nel diagnosticare rapidamente i primi episodi psicotici e avviare le terapie. Ma proprio su questo punto è necessario insistere, dicono gli esperti, per portare a linee guida più precise e utili per i pazienti.