• Moda
  • Venerdì 16 ottobre 2015

La moda ecosostenibile

Per i grandi marchi – come Puma – non funziona, ma ci sono molti esempi di successo tra le aziende più piccole

di Enrico Matzeu – @enricomatzeu

Una modella con una creazione di materiali di riciclo con pagine di giornali, a Rio de Janeiro, 2 febbraio 2015
(AP Photo/Felipe Dana)
Una modella con una creazione di materiali di riciclo con pagine di giornali, a Rio de Janeiro, 2 febbraio 2015 (AP Photo/Felipe Dana)

Nel febbraio 2013 il brand di abbigliamento sportivo Puma lanciò InCycle, una linea di abbigliamento ecologico che prevedeva scarpe, giacche e zaini fatti di materiali biodegradabili e riciclabili. Due anni e mezzo dopo il Guardian racconta la storia del fallimento della linea, annunciato dall’azienda lo scorso novembre. Puma ha infatti spiegato che i rivenditori non avevano ordinato i prodotti di InCycle, che si potevano quindi acquistare solo nei negozi monomarca, dove c’era comunque «una richiesta molto scarsa». Ora Puma ha sospeso anche la ricerca per realizzare nuovi progetti ecosostenibili.

InCycle comprendeva abiti e accessori fatti con fibre naturali e nel processo non venivano utilizzate sostanze tossiche: magliette e scarpe da ginnastica realizzate con cotone e lino biologici, zaini di uno speciale polipropilene che poteva essere riportato allo stato originario, e una felpa fatta di poliestere riciclato. Anche le parti metalliche e le cerniere potevano venire riutilizzate quando i vestiti diventavano vecchi e inutilizzabili. Puma aveva inoltre avviato il programma “Bring me Back” che, sul modello dell’iniziativa del marchio sportivo Patagonia, permetteva ai clienti di riportare nei negozi i capi dismessi di Puma e non solo. Recentemente anche H&M ha portato avanti un progetto simile per riciclare i tessuti, limitare gli sprechi e promuovere la sostenibilità.

Le linee ecosostenibili dei marchi più famosi però hanno raramente successo: la clientela non è abituata a quel tipo di offerta e i consumatori della cosìddetta “moda ecologica” e della “moda etica” – fatta da aziende che producono in paesi in via di sviluppo, rispettando i lavoratori e il territorio – si rivolgono ai marchi già specializzati. Anche le case di moda di lusso hanno proposto più volte collezioni rispettose dell’ambiente, che spesso sono sembrate più operazioni di immagine che iniziative concrete. Gucci, per esempio, aveva creato borse di pelle proveniente dall’Amazzonia con l’aiuto di Rainforest Alliance, un’organizzazione non profit che combatte contro la deforestazione. Nel 2009 Chopard lanciò la Green Carpet Collection, una linea di gioielli con pietre preziose certificate da organizzazioni non governative sudamericane. Il portale di e-commerce di lusso Net-à-porter aveva messo in vendita una piccola collezione di abiti ecologici creati da cinque stilisti inglesi, tra cui Christopher Kane e l’ex Spice Girls Victoria Beckham.

Il fallimento di InCycle e simili progetti non significa automaticamente che le aziende specializzate in moda ecosostenibile non abbiano successo. Sempre il Guardian racconta le storie di successo di alcune di loro. Fernando Gerscovich è un imprenditore di Los Angeles che ha fondato, insieme ai suoi due fratelli, Industry of All Nations, un’azienda che produce espadrillas con la suola in iuta anziché in gomma, e con tessuti in cotone biologico: vende fino a ventimila paia l’anno. Gerscovich ha spiegato la sostenibilità ecologica dei suoi prodotti dicendo che «Se fai un buco nel terreno, ci metti dentro le nostre scarpe assieme ad alcuni semi, e ci aggiungi l’acqua, crescerà una pianta. Immaginate se questo fosse l’obiettivo di tutte le aziende: cioè poter buttare un prodotto che non usi più sapendo che non causerà alcun tipo di inquinamento». Lo scorso settembre Industry of All Nations ha aperto il primo outlet a Los Angeles.

A New York c’è Mela Artisans, una start up che produce e vende accessori e pezzi d’arredo artigianali provenienti dall’India. Tutti gli oggetti sono realizzati con fibra di banana, lana e cotone; il tessuto utilizzato è il tasar, una seta grezza biodegradabile prodotta da Eco-Tasar. L’azienda, che si trova a Delhi, in India, controlla tutti i processi produttivi e rivende poi il tasar nel resto del mondo. Nel 2014 ha assunto circa 2.000 tessitori per un fatturato di 2,5 milioni di dollari, circa 2,2 milioni di euro.

Per quel che riguarda l’Italia, a maggio 2015 si è tenuto a Milano il Fair & Ethical Fashion Show, una fiera dedicata alle aziende del commercio equo e solidale. Tra quelle con maggior successo di vendita c’è Cangiari, che produce una linea di vestiti prêt-à-porter fatta con tessuti di fibre organiche realizzati su telaio, secondo la tradizione calabrese. Par.co Denim produce jeans creati da artigiani lombardi con tessuti italiani e giapponesi in bambù, canapa, lino, cotoni riciclati e colorati con tinture vegetali. Si serve di tessuti riciclati anche Made In Carcere, una cooperativa che produce borse e accessori in alcune carceri femminili pugliesi.