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  • Domenica 11 ottobre 2015

Vi ricordate il tifoso accusato di aver fatto perdere ai Cubs le World Series di baseball?

Forse no, perché lui non si fa più vedere in giro dal 2003: il Washington Post ha raccontato dell'uomo che da allora lo protegge

di Kent Babb – Washington Post

(AP Photo/Amy Sancetta, File)
(AP Photo/Amy Sancetta, File)

Quando la settimana scorsa la squadra di baseball dei Chicago Cubs ha vinto lo spareggio per accedere ai playoff della stagione di baseball americana, Frank Murtha sapeva che il suo telefono avrebbe ripreso a squillare. I Cubs non vincono la World Series – le finali della stagione disputate dalle due squadre che vincono i playoff – dal 1908, e in generale non le giocano dal 1945. Ma Murtha non fa parte dello staff dirigenziale della squadra. È invece un agente sportivo, e il suo nome è in qualche modo legato all’ultima volta in cui i Cubs andarono vicino a giocarsi le World Series, nel 2003. Murtha è l’avvocato e portavoce di Steve Bartman, il tifoso che nel 2003 fu accusato di aver fatto perdere ai Cubs la partita decisiva dei playoff, e che da allora non si è più fatto vedere in giro.

Quella del 14 ottobre 2003 era una partita importantissima dei playoff: i Cubs avevano vinto la loro divisione – un “sottogirone” dei playoff – e battendo i Florida Marlins sarebbero andati alle finali, le World Series. I Cubs sono famosi per non vincerle da 106 anni (erano 94 allora) e per una nota “maledizione” relativa. All’ottavo inning – il penultimo tempo di una partita di baseball – i Cubs erano avanti per 3-0 e stavano giocando la metà dell’inning in difesa: una battuta dei Marlins uscì dalla zona valida del campo e si diresse verso la zona dove si trovava Bartman, che si sporse dal suo posto in prima fila per tentare di prendere la palla in gioco – come spesso capita di fare ai tifosi del baseball quando credono che nessuno possa ormai raggiungerla.

Ma una palla in “foul”, fuori dai limiti laterali del campo, è in realtà ancora giocabile: se viene presa al volo da un giocatore della difesa, il battitore avversario verrà comunque eliminato. E Moises Alou, un giocatore dei Cubs, accorse nello stesso punto di Bartman e si lanciò saltando verso la palla oltre la recinzione cercando di prenderla nel suo guantone. Se Alou avesse preso la palla avrebbe eliminato il secondo battitore avversario, e la fine dell’inning (che arriva alla terza eliminazione del battitore) sarebbe stata più vicina. Alou saltò ma la pallina venne deviata da Bartman, che si era allungato per prenderla. I Marlins rimontarono e vinsero la partita 8-3. I Cubs furono eliminati dalle World Series.

Bartman lasciò lo stadio di Wrigley Field dietro i fischi del pubblico ma non sapeva ancora a cosa stava andando incontro. Fino al giorno prima era un tifoso qualunque dei Cubs che lavorava in un ufficio di consulenza: dopo la partita si ritrovò a essere una specie di paria, la causa e il simbolo della sconfitta. Gente che non conosceva cominciò a infastidirlo per strada cercando di fargli domande, insultarlo o picchiarlo. Le richieste di intervista arrivarono da tutte le parte. Ci furono anche delle minacce di morte. Rod Blagojevic, l’allora governatore dell’Illinois, suggerì a Bartman di affidarsi al programma federale per la protezione dei testimoni.

In quei momenti la famiglia di Bartman si ricordò di Murtha, che era un esperto di diritto sportivo e aveva negoziato contratti per conto di giocatori di football americano. Bartman conosceva la figlia di Murtha già dalle superiori, e negli anni i due erano rimasti in contatto. Bartman chiese un favore a suo padre, che disse di sì. Bartman e Murtha iniziarono a collaborare preparando un comunicato stampa in cui Bartman spiegava: «ci sono poche parole per descrivere quanto mi sento male e cosa ho passato nelle ultime 24 ore». Nello stesso comunicato Bartman chiedeva ai tifosi dei Cubs di incanalare la rabbia in energia positiva. Non accadde.

A quel punto Bartman chiese a Murtha come avrebbe dovuto gestire la situazione. Voleva solo essere lasciato in pace, cosicché potesse tornare a lavorare. Murtha iniziò a costruire una specie di muro attorno a Bartman, che ancora oggi rimane quasi insuperabile.

Nel caso qualcuno chiedesse di intervistare Bartman la risposta – allora come oggi, a prescindere dal taglio o le circostanze dell’articolo – era sempre “no”. Col tempo Murtha, che ha detto di aver sempre lavorato gratis, è diventato il portavoce di Bartman e di fatto il suo avvocato, dato che si è sempre lamentato pubblicamente quando il suo nome è stato usato in maniera inappropriata. Durante un’intervista telefonica, Murtha ci ha detto che Bartman «non è il tipo di persona che vuole attenzione o che la desiderava prima che tutto questo accadesse». Col passare del tempo, le richieste e il livore contro Bartman sono proseguiti. Oggi Bartman passa le sue giornate lavorando in un ufficio alla periferia di Chicago cercando di non attirare l’attenzione, ma l’interesse verso di lui non si è mai davvero esaurito. Anzi, si è intensificato ogni volta che i Cubs si sono avvicinati ai playoff. Il piccolo favore fatto da Murtha a Bartman si è quindi trasformato in un impegno a lungo termine.

Nel 2005, un giornalista di ESPN seguì Bartman nel tragitto da casa sua fino al posto di lavoro, aspettando per ore con la speranza di ottenere un’intervista, senza successo. Più avanti, ESPN chiese un’intervista a Bartman per produrre una puntata della sua famosa serie di documentari sportivi “30 for 30”, anche quella volta senza ottenere risposte positive. Altri giornali hanno continuato negli anni a fare richieste simili – ne sono arrivate più o meno 15 solo nell’ultima settimana – ma per come la vede Murtha, Bartman non ha nulla da guadagnarci: e quindi risponde sempre di no.

Alcuni anni fa, sempre secondo Murtha, un regista teatrale lo contattò per discutere di un potenziale spettacolo di Broadway incentrato sulla vicenda di Bartman, offrendosi anche di spedire la sceneggiatura. Murtha gli disse di non disturbarsi nemmeno. La risposta di Murtha non è cambiata nemmeno di fronte a grandi offerte. Una volta una società privata di riscossione delle tasse offrì a Bartman una cifra a cinque zeri per uscire allo scoperto e comparire in una pubblicità che sarebbe andata in onda durante il Super Bowl. Uno spettacolo televisivo gli offrì 25mila dollari per apparire nel programma e firmare una foto dell’incidente del 2003. L’allora governatore della Florida Jeb Bush gli offrì “asilo” nel caso volesse andare via da Chicago.

Ogni volta Bartman è riuscito a non rispondere direttamente perché c’era Murtha a farlo al suo posto. No, Bartman non era interessato a fare presenza al Super Bowl o a un programma televisivo, e no, Bartman non aveva intenzione di trasferirsi in Florida.

Murtha ha spiegato che è stato un po’ come «rivivere ogni giorno come se fosse quel giorno, come nel Giorno della Marmotta: ricevere chiamate e richieste per interviste e ospitate. La lista è infinita». Anche oggi, stando a quello che dice, l’attenzione su Bartman non è svanita. Un account fake di Bartman è attivo su Twitter e un paio di volte è riuscito a farsi credere autentico da alcuni giornalisti importanti. Un gruppo di tifosi dei Cubs ha avviato una raccolta fondi per convincere Bartman ad andare allo stadio per la partita dello spareggio del 2015 contro Pittsburgh. Dopo il rifiuto offerto da Murtha, un altro uomo che indossava vestiti identici a quelli di Bartman nella famosa partita del 2003 si è fatto vedere allo stadio.

Murtha dice di parlare ancora con Bartman, nonostante l’argomento di quella notte del 2003 venga fuori raramente nelle loro conversazioni. Fra di loro parlano di cose di tutti i giorni – lavoro, famiglia eccetera– sebbene Murtha ovviamente tenga segreti i dettagli di queste conversazioni. Non vuole nemmeno rivelare se Bartman si sia sposato o meno – nel 2003 era single – o se sia mai tornato a vedere un incontro dei Cubs. Murtha sostiene di essere ancora preoccupato per la sicurezza di Bartman – recentemente gli è capitata sotto mano una maglietta con l’immagine di Bartman impiccato – e Bartman non ha mai dimostrato di avere cambiato idea nel tempo. Secondo Murtha, «Steve non ha messo la sua vita in pausa per questa vicenda né lo farà. Ha un unico desiderio in tutta questa storia: vederne la fine, a un certo punto».

©Washington Post