Google ci rende più smemorati, e va bene così

Non sappiamo più i numeri di telefono a memoria, e allora? Ricordiamo meno cose perché sappiamo dove andarle a cercare: siamo "esseri umani potenziati"

di Caitlin Dewey - The Washington Post

Quartz ha segnalato, con un titolo terroristico, un interessante report: secondo una ricerca della società di sicurezza informatica Kaspersky Lab, l’”amnesia digitale” ci sta progressivamente asciugando il cervello. La ricerca è stata realizzata consultando 6mila adulti nei paesi dell’Europa occidentale e mille altre persone negli Stati Uniti, chiedendo cose come i numeri di telefono imparati a memoria e i sistemi che utilizzano quando hanno bisogno di ricordare qualche fatto. La metà degli statunitensi ha detto che preferisce cercare un’informazione online piuttosto che ricordarla, e il 29 per cento ha detto che comunque se la dimenticherebbe poco dopo averla appresa. Gli europei si sono rivelati altrettanto malmessi: il 36 per cento dice di gugolare-prima-e-pensare-dopo; il 24 per cento ha ammesso che probabilmente dimenticherebbe la cosa gugolata poco dopo avere chiuso il browser. Nel complesso, sono tutti risultati ossessionati con i loro smartphone: più del 40 per cento dice che il loro telefono contiene “qualsiasi cosa che occorre sapere”.

Va bene, probabilmente non c’è bisogno di uno studio come questo o di una ricerca su larga scala per confermare un fenomeno che già conosciamo. Quante persone imparano ancora a memoria un numero di telefono? Quanti si orientano senza consultare Google Maps?

Ma mentre è sicuramente vero che facciamo sempre più affidamento sulla tecnologia per aiutare la nostra memoria, è ancora tutto da dimostrare che questo fenomeno sia una cosa negativa. Dopotutto, il problema può essere inquadrato in due modi diversi: Internet sta rimpiazzando le nostre naturali capacità mentali, oppure le sta aumentando. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma pensate a due cose che vengono spesso dimenticate (eh già) su come funziona la nostra memoria. Prima di tutto, la memoria non è – e non è mai stata – un’impresa affidata unicamente alla vostra testa. Molti studi indicano che abbiamo sempre fatto molto affidamento su altre persone, così come sui diari e i post-it, per ricordare svariate cose generiche o di tipo biografico. Si chiama “memoria transattiva” e significa che immagazziniamo informazioni non solo nei nostri cervelli, ma negli oggetti e nelle persone che abbiamo intorno.

Secondo, “ricordare” non è di per sé una cosa buona, così come non lo è dimenticare. Non lo pensereste quando ripetete più volte il PIN sbagliato al bancomat: però in generale il cervello ha solo un dato spazio per immagazzinare le informazioni, un po’ come il vostro smartphone. E a un certo punto, è necessario cancellare tutte quelle vecchie foto e applicazioni per inserirne di nuove. E questo ci riporta all’”amnesia digitale”: l’idea che i nostri computer in qualche modo possano danneggiare la memoria. Il fatto di avere sempre immagazzinato dei ricordi esternamente in altre persone e cose, e quello di non avere la capacità di ricordare tutto, dimostra come questa “amnesia” sia semplicemente una saggia pratica di delocalizzazione.

E questa è stata anche la conclusione di tre psicologi che hanno studiato il cosiddetto “effetto Google” nel 2011: anche se la ricerca fu interpretata come la prova che Google ci fa dimenticare le cose, i ricercatori arrivarono a conclusioni più ottimistiche. Scrissero: “Stiamo entrando in simbiosi con i nostri dispositivi elettronici, creando sistemi interconnessi che ricordano meno le cose, ma che sanno dove possono essere trovate le informazioni”.

Il tecnologo e docente di legge della Columbia University Tim Wu ha scritto quella che è probabilmente la più chiara difesa di questa nuova condizione: che cosa penserebbe una persona dei primi del Novecento se potesse viaggiare nel tempo e parlare con una persona dei giorni nostri, nascosta dietro una tenda con uno smartphone? La persona dal passato sarebbe affascinata dalla capacità del suo interlocutore di risolvere equazioni complesse, rispondere a domande intricate e fare citazioni in altre lingue. La persona dei primi del Novecento penserebbe di avere a che fare con una specie di genio (a noi sembrerebbe semplicemente una tipa con un telefono). Wu dice che “con le nostre macchine, siamo esseri umani potenziati, degli dei con una protesi, anche se siamo notevolmente assuefatti a questa cosa, come a qualsiasi altra”.

Infine, la naturale capacità di memorizzare cose non è andata a rotoli. Per esempio: l’articolo sull’amnesia digitale di Kaspersky era venuto fuori quattro mesi fa, un tempo lungo a sufficienza per dimenticarci della prima copertura che ebbe da parte dei media e per tornare a occuparcene.

©2015 The Washington Post