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  • Venerdì 2 ottobre 2015

Cos’è cambiato in Bangladesh dopo la strage nella fabbrica di indumenti di Dacca

I lavori per la messa in sicurezza vanno ancora a rilento, dopo il crollo del 2013: i sindacati presenteranno un reclamo ufficiale

Un'operaia in una fabbrica tessile di Dacca, il 16 aprile 2012 (MUNIR UZ ZAMAN/AFP/GettyImages)
Un'operaia in una fabbrica tessile di Dacca, il 16 aprile 2012 (MUNIR UZ ZAMAN/AFP/GettyImages)

Il Financial Times scrive che una federazione internazionale di sindacati emetterà un reclamo formale verso H&M e gli altri brand di abbigliamento che sono coinvolti nei lavori di messa in sicurezza dei laboratori tessili del Bangladesh. I lavori sono frutto di un accordo rabilito dopo che il 24 aprile del 2013 a Dacca – la capitale del Bangladesh – crollò il Rana Plaza, un palazzo di nove piani in cui c’erano moltissimi laboratori di manifattura tessile, fornitrici di molte aziende occidentali: morirono 1.129 persone. Il palazzo crollò a causa di alcuni problemi strutturali che erano emersi già nei giorni precedenti: erano state segnalate crepe sui muri e il palazzo era stato evacuato per precauzione, ma si decise di riaprirlo per non dover chiudere i laboratori tessili troppo a lungo.

In seguito alla strage diverse multinazionali della moda avevano firmato con l’IndustriALL Global Union – una federazione internazionale a cui aderiscono 900 sindacati di 140 paesi, con circa 20 milioni di iscritti – un accordo legalmente vincolante: l’Accord on Fire and Building Safety. L’accordo prevedeva che le aziende aderenti si assicurassero che i loro fornitori avrebbero messo in sicurezza le proprie fabbriche, accertandosi che avessero a disposizione i fondi necessari e smettendo di comprare vestiti da quelli non a norma. Se una delle società aderenti all’accordo viene sospettata di aver violato gli impegni assunti, gli altri firmatari possono presentare un reclamo al comitato direttivo: in quel caso la società dovrà affrontare un processo arbitrale – cioè esterno, presso dei giudici privati – le cui decisioni diventeranno esecutive presso un tribunale del paese di origine della società. L’accordo non prevede sanzioni ma l’obbligo di procedere con il protocollo di messa a norma.

Altri marchi avevano firmato un secondo accordo, il “Bangladesh Worker Safety Initiative”, non legalmente vincolante e con una durata di tempo limitata – cinque anni – che prevedeva che ogni membro dovesse contribuire con un importo specifico stabilito in base alla quantità della produzione di ciascuna azienda nel paese. Dopo più di due anni però i lavori per garantire la sicurezza alle fabbriche di vestiti sono ancora molto indietro e troppo lenti: Ben Vanpeperstraete, dell’IndustiALL Global Union, ha detto di volersi assicurare che i brand mantengano i loro impegni.

Il Financial Times scrive che in 32 delle fabbriche considerate tra i migliori fornitori di H&M, gli ispettori indipendenti che si occupano dei controlli hanno identificato ancora centinaia di rischi per la sicurezza e la metà dei lavori, soprattutto quelli strutturali, è in ritardo di sei mesi. Le fabbriche fornitrici di H&M, che gli stessi attivisti dicono essere l’azienda più disponibile e condiscendente, non sono le uniche coinvolte: l’azienda però è al centro della controversia in quanto è il maggiore compratore del Bangladesh. H&M ha risposto dicendo di prendere in considerazione molto seriamente i rischi di sicurezza e ammettendo che il processo è in ritardo, ma a causa di difficoltà nell’importazione dell’equipaggiamento necessario, per esempio porte antincendio e impianti antincendio, e della scarsità di competenze professionali sul territorio. Rob Wayss, direttore esecutivo dell’accordo, ha risposto che queste spiegazioni potevano essere valide in passato ma ormai non lo sono più. In un’email al Financial Times H&M ha scritto di aver provveduto all’aiuto finanziario richiesto, ma si è rifiutata di rispondere alle domande sui dettagli relativi a quante delle sue fabbriche abbiano richiesto aiuto e quanto sostegno abbiano ricevuto, o in quale forma.

Vidiya Khan, proprietario di Desh Garments e membro dell’Alliance for Bangladesh Worker Safety, un’organizzazione non governativa per la tutela dei lavoratori in Bangladesh, ha spiegato che molti proprietari delle fabbriche sono riluttanti a chiedere i finanziamenti per intraprendere i lavori di messa in sicurezza, anche se ne avrebbero bisogno, per paura di ripercussioni sulle vendite. Secondo quanto riportato dal Financial Times, i proprietari delle fabbriche in Bangladesh lamentano la pressione sui prezzi da parte dalle multinazionali occidentali: un proprietario di un’azienda ha detto che i compratori dovrebbero iniziare a pagare di più, se vogliono più sicurezza, ma anche dopo tutti questi interventi c’è ancora chi chiede riduzioni di prezzo.

A causa della disponibilità di manodopera a bassissimo costo, il Bangladesh è il secondo produttore di indumenti al mondo dopo la Cina: con un mercato da 20 miliardi di dollari all’anno, l’industria tessile del paese nel 2012 ha garantito l’80 per cento delle esportazioni, delle quali l’80 per cento verso l’Unione europea. A differenza di un tempo in Bangladesh non vengono prodotti soltanto indumenti per le marche cosiddette “low cost” (H&M, Zara, Walmart, per esempio) ma anche per molti marchi di stilisti importanti come Ralph Lauren, Hugo Boss e Giorgio Armani, con una grande incongruenza tra il costo di produzione e quello di vendita che non ha però alcun vantaggio sui proprietari e sui lavoratori dei laboratori tessili in Bangladesh: secondo i proprietari delle fabbriche del paese, i margini di profitto tendono a essere gli stessi indipendentemente dal cliente e tutti tendono ugualmente ad abbassare i costi di produzione.