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  • Venerdì 11 settembre 2015

Come funziona il trattato di Dublino

E cosa significa "superare Dublino", rispetto alle regole con cui i paesi dell'Unione europea cercano - senza riuscirci - di gestire l'immigrazione

 (AP Photo/Giannis Papanikos)
(AP Photo/Giannis Papanikos)

La Convenzione sull’accoglienza dei rifugiati firmata dagli stati dell’Unione europea a Dublino nel 1990 prevede l’applicazione di alcune regole comuni in tutti gli stati dell’Unione – e alcuni altri stati europei che l’hanno firmata – riguardo alla gestione delle richieste di asilo, e di standard condivisi per l’accoglienza dei rifugiati: ovvero dei migranti che fanno richiesta di asilo nei paesi europei. Negli anni, però, è stata criticata per avere regole eccessivamente larghe e vaghe e per essere fondamentalmente ingiusta verso i paesi “di frontiera”, per via dell’obbligo dei rifugiati di identificarsi e rimanere nel primo paese dell’Unione in cui mettono piede.

La settimana scorsa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha chiesto di «superare con regole nuove e condivise l’accordo di Dublino». Il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ne ha chiesto «modifiche fondamentali» durante il suo discorso sullo Stato dell’Unione del 9 settembre. L’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri Federica Mogherini, quando ancora era Ministro degli Esteri italiano, aveva promesso alla Camera di applicare le regole di Dublino «con la massima flessibilità nell’ambito dei margini previsti». Per ultimo, l’11 settembre il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha scritto una lettera a Repubblica chiedendo di «superare la logica dell’egoismo nazionale, e dunque superare Dublino».

Cos’è, cosa garantisce 
La Convenzione di Dublino è stata firmata nel 1990 da 12 stati dell’Unione europea ed è entrata in vigore l’1 settembre 1997. Riguarda il processo per chiarire quale stato deve esaminare la domanda ed eventualmente fornire asilo ai “rifugiati”, e quindi una particolare categoria di migranti: quelli che scappano da contesti di guerra o persecuzioni, il cui status è riconosciuto da una convenzione ONU del 1951 e da varie direttive europee in merito.
Gli accordi di Dublino non determinano quindi i criteri che ciascuno stato utilizza per decidere se un rifugiato meriti o meno il diritto di asilo in un dato paese, ma solo quale paese europeo debba occuparsene. Tutti i paesi europei hanno il dovere di accogliere i rifugiati, ma hanno anche il diritto di decidere su quali basi farlo, e cosa garantirgli.

La Convenzione è nata fondamentalmente per adottare una pratica comune in tutta Europa ed evitare che un richiedente asilo possa fare domanda in più stati dell’Unione, creando confusione e conflitti di responsabilità. La prima Convenzione prevedeva già i due punti chiave che sono stati conservati fino ad oggi.

1. Lo Stato responsabile della gestione della domanda di asilo di ciascun rifugiato è quello in cui abitano legalmente i suoi parenti stretti, o dal quale ha già ricevuto un permesso di soggiorno.

2. In assenza di legami accertati, lo Stato che si fa carico della domanda e dell’accoglienza è il primo in cui il rifugiato mette piede.

Nel 2003 e nel 2013 la Convenzione è stata rivista e integrata: nel 2003 sono stati introdotti criteri più precisi per la gestione di minori ed è stato riaffermato come principio fondamentale il rispetto dell’unità familiare. Nel 2013 è stata introdotta la possibilità che uno Stato rifiuti di trasferire un rifugiato nello Stato deputato a occuparsene nel caso in cui quest’ultimo gli possa riservare «un trattamento disumano e degradante». L’intero processo di indagine e individuazione dello Stato che deve gestire la domanda è stato inoltre reso più “inclusivo”: obbliga cioè ciascuno stato a tenere informato il rifugiato dei vari passaggi della sua pratica e tenere conto delle sue esigenze tramite un colloquio personale.

I problemi
Per prima cosa, le norme di Dublino sono “vecchie”: sono rimaste praticamente le stesse da 25 anni, cioè da quando furono sottoscritte da solo 12 stati e l’Unione europea non era ancora quella di oggi (ad oggi i paesi che hanno poi sottoscritto gli accordi di Dublino sono i 28 dell’Unione europea assieme a Norvegia, Islanda, Svizzera e Liechtenstein). Le norme di Dublino, inoltre, sono state concepite immaginando flussi regolari di rifugiati e una sostanziale complicità e standard comuni in tutti i paesi dell’Unione: in questo modo, a regime, i rifugiati che hanno legami familiari sarebbero trasferiti nei paesi competenti e quelli senza particolari legami sarebbero “spontaneamente” accolti nei vari paesi europei di frontiera.

Negli anni, e ancora di più nelle ultime settimane, è diventato evidente che la maggior parte dei rifugiati entra nell’Unione Europa illegalmente, senza documenti e cercando di non farsi identificare nel primo paese in cui mette piede, poiché in genere è meno ricco dei paesi dell’Europa centrale o settentrionale dove spesso gli stranieri sono diretti e dove vogliono chiedere asilo. I migranti che solamente nel 2015 sono arrivati in Grecia e in Italia – rispettivamente, fino ad agosto, 160mila e 110mila – nella maggior parte dei casi non hanno voluto farsi identificare e chiedere asilo, ma hanno cercato di proseguire il proprio viaggio per arrivare più a nord.

La cosa ha messo in notevole difficoltà per prime le autorità greche e italiane, che si sono trovate nella situazione di dover offrire rifugio e assistenza temporanea a decine di migliaia di persone che al contempo però non volevano farsi identificare, cosa che invece l’Italia e la Grecia erano tenute a fare. Oltretutto, proprio secondo il trattato di Dublino, il primo stato in cui un rifugiato si registra ufficialmente – la Germania e la Svezia, se il rifugiato riesce a raggiungerle senza farsi identificare prima altrove – è tenuto a indagare sul tragitto seguito per arrivare fin lì, e rimandarlo nel primo paese in cui è entrato: cosa poco gradita sia al rifugiato – che viene espulso dal paese in cui voleva chiedere asilo – sia al paese “di frontiera” che si trova a dover gestire la sua domanda (e motivo per cui la Germania ha di fatto sospeso le norme di Dublino, quando ha fatto sapere che avrebbe offerto accoglienza a tutti i siriani a prescindere dalla loro precedente provenienza).

Oltre ai difetti strutturali, la Convenzione ha molti difetti “di fatto”: Ferruccio Pastore, il direttore del Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione, ha spiegato a Euronews che il principio del rispetto dell’unità familiare nella scelta del paese che deve gestire la richiesta di asilo è di fatto ignorato: «la parentela deve essere provata e non è semplice. I migranti arrivano spesso senza documenti, la regola è quindi che bisogna fare un test del DNA. Ma è molto complicato perché al di là della lunghezza e del costo della procedura bisogna trovare il parente che vive già in Europa e far fare anche a lui il test». Le procedure di presa in carico della domanda, di indagine sul percorso effettuato dal rifugiato e di esame della domanda, inoltre, sulla carta dovrebbero essere piuttosto spedite: e invece in vari paesi – compresa l’Italia – occupano vari mesi, in cui il rifugiato si trova in una specie di “limbo” durante il quale vive esclusivamente a carico dello stato perché non può ottenere un permesso lavorativo.

Cosa si può fare?
La Commissione Europea, nel maggio del 2015, ha pubblicato la European Agenda on Migration nella quale ha ammesso che le norme previste da Dublino «non stanno funzionando come dovrebbero» ma sostanzialmente suggerisce di rafforzare la collaborazione fra stati: per esempio attraverso la creazione di un database unico ed efficiente di impronte digitali – il cosiddetto Eurodac – da prendere ai rifugiati nei paesi di “frontiera”, e regole ancora più stringenti per i minori non accompagnati. L’agenda suggeriva inoltre di valutare ed eventualmente rivedere le norme di Dublino nel 2016.

Le raccomandazioni dell’Unione europea sul migliorare il funzionamento delle norme di Dublino – senza modificarle radicalmente – sono state di fatto superate dalla proposta avanzata il 9 settembre da Juncker, che ha chiesto di distribuire in vari paesi dell’Unione, che dovranno ospitarli e gestire le loro richieste, 120mila richiedenti asilo che oggi si trovano in Grecia, Italia e Ungheria. Il 14 settembre i ministri degli Esteri dell’Unione europea terranno una riunione d’emergenza per discutere della gestione dei migranti e rifugiati: non è chiaro però se discuteranno dell’introduzione di un sistema definitivo di “quote” e di rivedere con anticipo le norme di Dublino.

Una proposta più radicale è stata ad esempio avanzata da Bill Frelick, il responsabile dei rifugiati della NGO Human Rights Watch, che ne ha scritto l’8 settembre sull’edizione europea di Politico: Frelick propone di garantire una specie di diritto di asilo “provvisorio” per persone che rispettano dei criteri di base – come provenire da un paese in guerra – di modo che nei mesi di “limbo” in seguito alla richiesta di asilo possano già lavorare. Principalmente, però, Frelick ha suggerito una revisione della regola del “primo paese”:

La norma per decidere quale paese debba esaminare la richiesta di asilo dovrebbe tenere conto del primo paese in cui è avanzata, non del primo paese in cui il rifugiato ha messo piede. Per ora le norme di Dublino lo permettono per i minori accompagnati: ma quella che per ora è un’eccezione, dovrebbe essere una regola. Ma la cosa potrebbe funzionare solo a fianco di un sistema di responsabilità condivise, cosicché le destinazioni più popolari non debbano subire tutto il peso da sole.