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  • Martedì 21 luglio 2015

Omicidi in mare

Il video di una sparatoria misteriosa è solo un esempio di molte e varie violenze ignote compiute nei mari del mondo, racconta un'inchiesta del New York Times

Lo scorso anno qualcuno ha trovato un telefono cellulare perso sul sedile di un taxi a Suva, la capitale delle Fiji, un arcipelago di isole in Oceania. La memoria del cellulare conteneva un video che mostra quattro barche in alto mare, alcuni uomini in acqua che annaspano per restare a galla, e qualcuno da una delle imbarcazioni che comincia a sparare verso di loro. Si sentono le voci di quelli a bordo – «Spara! Spara! Spara!» – si vedono i colpi delle armi semiautomatiche colpire l’acqua e poi le persone in acqua, uccidendole. Il video è stato caricato online e le autorità delle isole Fiji hanno aperto un’inchiesta che non ha ad oggi portato a nessun risultato: quello mostrato nel video è solo uno delle migliaia di atti di violenza che avvengono ogni anno in alto mare e di cui normalmente non sappiamo nulla, in acque internazionali dove una disputa o un attacco si risolvono sparando. Il New York Times se ne è occupato in un lungo articolo che parla di omicidi in mare, rapimenti, pirati e milizie di sicurezza privata e che racconta cose molto lontane e in gran parte ancora misteriose.

Racconta il New York Times che nonostante i molti testimoni che si suppone fossero sulle barche al momento della sparatoria, l’omicidio mostrato dal video non è stato denunciato da nessuno e sarebbe rimasto sconosciuto se il video non fosse stato trovato in quel modo piuttosto rocambolesco. Nessun paese ha deciso di indagare seriamente sull’accaduto: in mancanza di indicazioni precise sul luogo dell’incidente si è sommariamente deciso che fosse successo in acque internazionali, e che l’omicidio fosse stato la risposta a un attacco di pirateria fallito.

Omicidi di questo tipo, che avvengono in alto mare e restano sconosciuti, sono piuttosto comuni e cosa nota tra chi in mare ci lavora: ogni anno ci sarebbero centinaia di morti e, secondo gli storici, i mari del mondo sono meno sicuri oggi di quanto non lo fossero durante la Seconda Guerra Mondiale (uno dei migliori testi sul tema è il libro di William Langewiesche “Terrore dal mare“). «Lo scorso anno solo in tre regioni del mondo – l’Oceano Indiano occidentale, il sudest asiatico e il Golfo di Guinea – più di 5200 naviganti sono stati attaccati da pirati e rapinatori e più di 500 sono stati presi in ostaggio», mostrano i dati raccolti dal New York Times.

I motivi dell’aumento delle violenze in mare sono molti, diversi ma in qualche modo correlati. In primo luogo c’è il fatto che ci sono sempre più imbarcazioni in mare tra quelle da pesca e da trasporto; questo produce un aumento della pirateria, che non è più solo quella dei grandi furti alle navi portacontainer – che sono in diminuzione –, e un aumento della competizione tra le barche da pesca per le migliori zone di mare. Conseguenza di questi fattori è, inoltre, l’aumento delle navi e degli armatori che si affidano a compagnie di sicurezza private per proteggere i loro carichi: e questo genera a sua volta maggiori rischi di conflitti a fuoco, maggiori violenze e più morti in mare. La scusa della difesa della pirateria, infine, diventa anche un modo per coprire regolamenti di conti e dispute tra imbarcazioni da pesca. Secondo alcuni esperti sentiti dal New York Times questo potrebbe anche essere stato il caso degli omicidi mostrati nel video ritrovato.

Navi da pesca
Quando si pensa alle violenze in mare si pensa istintivamente ai pirati e a grandi azioni simili a quelle raccontate nel film Captain Philips. Difficilmente si pensa che una grande parte delle violenze che accadono in mare abbia a che fare con la pesca, un’attività almeno all’apparenza piuttosto pacifica. Spiega però il New York Times che le violenze collegate alla pesca sono circa 20 volte di più di quelle legate ad attacchi di navi cargo o passeggeri.

La violenza sulle navi da pesca è diffusa e in grande aumento. Le imbarcazioni cinesi e taiwanesi, fortemente finanziate, stanno aggressivamente aumentando il loro raggio d’azione, ha spiegato Graham Southwick, presidente dell’associazione dei pescatori di tonno delle isole Fiji. I miglioramenti dei radar usati per trovare i banchi di pesce e il sempre maggiore ricorso a strumenti galleggianti di richiamo dei pesci, hanno aumentato le tensioni tra i pescatori che sono sempre più spesso negli stessi spazi di mare. «Il pescato diminuisce, gli animi si scaldano, si comincia a combattere» spiega Southwick, «Gli omicidi su queste barche sono una cosa piuttosto comune».

Molte delle imbarcazioni coinvolte in scontri e attacchi da parte di concorrenti sono sprovviste di assicurazione e, in generale, è diffuso il timore che riportare alle autorità un incidente accaduto in mare comporterebbe complicazioni e perdite di tempo in porto: per questo non succede quasi mai che qualcuno di questi episodi venga denunciato. Nella maggior parte dei casi, inoltre, le vittime delle violenze sono vietnamiti, indonesiani e malesi e i crimini hanno una loro ricaduta solo se coinvolgono cittadini europei o statunitensi. Infine, in molti casi mancano i testimoni ed è quasi impossibile sapere cosa sia successo: quando un omicidio avviene sulla terraferma è probabile che a un certo punto qualcosa venga scoperto, ma se un corpo viene gettato in alto mare non se ne saprà più nulla. Anche quando una nave della Guardia Costiera o della Marina si trova nei paraggi e arriva sul posto di un incidente per una coincidenza fortunata, è molto improbabile che possa raccogliere informazioni utili a ricostruire la vicenda: la polizia non può salire a bordo di una nave che batte la bandiera di un altro stato a meno che il capitano non acconsenta, ed è una cosa molto rara.

Pirateria
Anche la pirateria è cambiata molto nel corso degli ultimi anni, spiega il New York Times. I dati raccolti suggeriscono che centinaia di naviganti muoiano ogni anno in relazione ad attacchi di pirati. I tipi di attacchi, in questi casi, variano molto: ci sono i pirati che attaccano frontalmente un’imbarcazione usando gommoni e lancia-razzi, ci sono quelli che agiscono di notte per rubare il carburante dalle navi e quelli che provano veloci rapine armati solo di machete. Più recentemente, però, ci sono stati casi di pirati che hanno sequestrato navi travestiti da agenti di polizia marittima o trafficanti di migranti travestiti da pescatori. Ma ci sono anche altri casi di violenza in mare, in qualche modo legati alla pirateria ma difficili da definire:

Per esempio, nel 2012 c’è stato il caso di 10 migranti dello Sri Lanka, un gruppo di persone che includeva donne e bambini e che viaggiava un una barca da pesca non lontano dall’Australia. Quando la loro richiesta di cambiare la rotta per l’isola fu rifiutata i migranti attaccarono l’equipaggio uccidendo almeno due persone gettandole in mare. Oppure il caso degli schiavi birmani che nel 2009 riuscirono a scappare dalla nave tailandese su cui erano tenuti prigionieri nuotando fino a uno yacht privato: una volta a bordo uccisero il proprietario e rubarono la scialuppa.

In altri casi ancora, i pirati sono passati dall’attaccare le imbarcazioni a chiedere pagamenti in cambio di protezione durante l’attraversamento di certe zone di mare: questo tipo di strategia genera a sua volta nuove tensioni e nuove violenze, visto che spesso gang rivali finiscono con lo scontrarsi tra loro per il controllo delle stesse rotte.

Nel 2013, i media bengalesi hanno riportato il rapimento di oltre 700 pescatori, 150 solo a settembre. Almeno 40 sono stati uccisi in un singolo episodio, molti con le mani e i piedi legati prima di essere gettati fuori bordo.

Il mare intorno al Bangladesh – spiega il New York TImes – è uno dei peggiori per navigare a causa dei pirati: «Negli ultimi 5 anni circa 100 persone sono state uccise ogni anno in una lunga serie di attacchi da parte di gang armate». Il peggioramento della situazione è dimostrato anche dal cambiamento delle tariffe applicate dalle compagnie assicurative che si occupano di sicurezza in questa parte di mare: fino a qualche anno fa la quota assicurativa per ogni viaggio da e per i porti della costa orientale dell’India era di circa 500 dollari, ora è di 150.000 dollari.

I contractors
L’ultimo aspetto della violenza in mare di cui racconta il New York Times è anche quello di cui forse si sa di meno: il giro sempre più grande delle guardie private che si occupano della sicurezza in mare e le “armerie galleggianti”.

L’aumento della pirateria e degli attacchi in mare, negli anni, ha spinto molti armatori ad affidarsi a guardie private che garantiscano la sicurezza delle loro navi. Per lo più si tratta di squadre di 3 o 4 persone armate, principalmente ex soldati ma anche persone con scarsa preparazione, che salgono a bordo della nave e ci restano fino a che non si sono attraversate le zone più a rischio. Quello delle guardie private è un giro di affari da 13 miliardi di dollari all’anno.

Uno dei problemi legati alle compagnie di sicurezza private è che per far fronte alla grande richiesta hanno cominciato ad assumere persone impreparate e inadatte a fare un lavoro pericoloso e difficile come quello delle guardie armate: non parlano inglese come le altre guardie, non hanno esperienza in combattimento e non sanno come gestire un fucile. Alcuni ex soldati ora impiegati come guardie in mare – per lo più britannici e statunitensi – hanno spiegato al New York Times che essere coinvolti in uno scontro a fuoco in mare è molto diverso da esserlo a terra:

A terra puoi combattere o scappare. Là fuori puoi solo combattere. Non ci sono posti per nascondersi, non si può fare una ritirata, non c’è supporto aereo ne rifornimenti di munizioni. I bersagli sono quasi sempre in movimento molto veloce e prendere la mira è difficile per il continuo ondeggiare della barca. Infine, le navi sono spesso troppo grandi per essere controllate adeguatamente da squadre di 3 o 4 persone, specialmente quando gli attacchi arrivano da più di una imbarcazione.

Inoltre, riconoscere un pericolo in mare può essere molto difficile anche per una guardia addestrata e con esperienza. Fino a qualche anno fa una nave con persone armate con armi semiautomatiche era con altissima probabilità una nave di pirati. Ora, viste le condizioni di sicurezza in mare sempre più precarie, anche gli equipaggi delle navi da cargo e dei pescherecci sono spesso dotati di armi di uso militare. Capire se poi un’imbarcazione che si avvicina è intenzionata ad attaccare o no, non è facile: spesso i pescherecci che pescano illegalmente si mettono in scia di navi più grandi per essere invisibili ai radar delle forze di sicurezza e per beneficiare dei pesci attratti dai sedimenti del fondale portati a galla dal passaggio delle navi più grandi.

«La preoccupazione non è solo che una guardia senza esperienza possa giudicare male una situazione e sparare troppo presto per paura» ha spiegato una guardia di origini sudafricane, «ma è anche che non spari abbastanza presto». Se una guardia esita troppo a lungo, infatti, potrebbe perdere la possibilità di intervenire preventivamente (con colpi di avvertimento, usando i cannoni ad acqua o sparando al motore della barca) in modo da evitare uno scontro a fuoco più rischioso.

Le “armerie galleggianti”
Le progressive restrizioni nei confronti delle armi nei porti del mondo, giustificate per lo più dall’inasprimento delle leggi antiterrorismo, hanno prodotto anche il fenomeno delle cosiddette floating armories, le “armerie galleggianti”. Non potendo più entrare in porto con le armi che usano in servizio, le guardie private sono di fatto costrette a vivere, tra un lavoro e l’altro, su altre barche che girano sempre a largo della costa in acque internazionali e che funzionano più o meno come grandi ostelli. Le guardie si fanno venire a prendere alle nave su cui hanno prestato servizio e che magari sta per arrivare in porto, lasciano le loro armi in un’armeria sorvegliata e poi aspettano fino al prossimo lavoro, quando si faranno riaccompagnare con le loro armi verso la nave che ha bisogno di loro: in pratica non toccano mai terra. Tutti questi servizi, naturalmente, sono a pagamento: il trasbordo da e per una nave può costare anche diverse migliaia di dollari a seconda della distanza da coprire, la permanenza a bordo di una di queste navi ostello costa invece circa 25 dollari a notte.

Le “armerie galleggianti” non sono dei posti particolarmente piacevoli dove vivere, hanno raccontato diverse guardie al New York Times. Le cabine sono minuscole, sporche e sovraffollate e l’assenza di una polizia di bordo fa si che spesso, tra le guardie, nascano liti e violenze. Non è difficile da immaginare: decine di uomini che magari non tornano a casa da mesi e che sono costretti a vivere in uno spazio piccolo e confinato dove non c’è praticamente nulla da fare se non allenarsi in palestra e bere i pochi alcolici disponibili. Una guardia ha descritto le “armerie galleggianti” come «pentole a pressione psicologiche».

Nessuna delle guardie intervistate sapeva di scontri mortali avvenuti su queste barche. Ma non c’è scarsità di frizioni e liti. Una volta una guardia lettone alta 1 metro e 80 e pesante più di 130 chili decise di fare i suoi bisogni in una doccia della nave perché non riusciva a entrare nei piccoli bagni. Affrontato dalle altre guardie si rifiutò di pulire. Diversi giorni prima era nato un litigio tra due guardie sudafricane e il loro capo. Non ricevevano il loro stipendio da circa un mese ed erano praticamente stati abbandonati sulla Seapol (una delle “armerie galleggianti” visitate dal New York Times, ndr.) dalla società di sicurezza per cui lavoravano senza nessun modo per poter tornare in porto.