La Grecia non è “la culla della democrazia”

Lo sostiene sul Corriere della Sera lo storico Umberto Curi: “uno dei più vieti e insieme infondati luoghi comuni”

Platone e Aristotele al centro della "Scuola di Atene", nella Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani. L'opera è di Raffaello Sanzio, fotografata da Alessandro Grussu.
Platone e Aristotele al centro della "Scuola di Atene", nella Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani. L'opera è di Raffaello Sanzio, fotografata da Alessandro Grussu.

Lo storico e filosofo Umberto Curi sul Corriere della Sera di oggi spiega perché uno dei luoghi comuni sulla Grecia più volte ripetuti in questi giorni – quello della Grecia come “culla della democrazia” – in realtà è per l’appunto un luogo comune: “un falso storico”. Curi scrive, tra le altre cose: “Ammesso e tutt’altro che concesso, che la democrazia sia nata in Grecia, non solo essa compare in una accezione del tutto incommensurabile, rispetto all’accezione corrente del termine, ma è accompagnata da argomentati giudizi che ne mettono radicalmente in discussione il primato, rispetto ad altre forme di governo”.

Il referendum celebrato in Grecia domenica 5 luglio ha rilanciato uno dei più vieti, e insieme infondati, luoghi comuni, accreditando l’idea che la Grecia sia stata la «patria della democrazia», nell’accezione moderna della parola. In nome di questa paternità, un buon numero di uomini politici italiani, indifferentemente di destra e di sinistra, ha indicato in quella consultazione popolare una luminosa conferma della bontà del sistema democratico, l’unico capace di garantire l’obiettivo politico fra tutti, e per tutti, più desiderabile, vale a dire l’autogoverno del popolo. E la Grecia del Sì o del No all’euro avrebbe confermato di essere stata la culla della forma di governo ancor oggi giudicata nettamente preferibile, rispetto ad altre.

Il termine demokratía comincia a circolare verso la fine del VI secolo avanti Cristo, con una accezione prevalentemente dispregiativa. In entrambe le componenti della parola. Da un lato, infatti, krátos non significa affatto genericamente «potere» (come per lo più si ritiene), ma si riferisce piuttosto a quella forma di potere che scaturisce da, e si fonda su, l’uso della forza. Analogamente, il termine démos viene adoperato per denominare non la totalità della popolazione, ma quella parte, ancorché maggioritaria, del popolo, che è in possesso di alcuni requisiti. Le occorrenze di démos nel senso di regime popolare, cioè di democrazia, sono pochissime e si trovano concentrate nel celebre dibattito sulle costituzioni, svoltosi verso la metà del V secolo. Le altre attestazioni di démos si presentano sostanzialmente come valutazioni negative della democrazia, quali potevano essere espresse soprattutto dai suoi avversari, i quali contestavano a questa forma di governo il fatto di privilegiare i (molti) cattivi, rispetto ai pochi (buoni), ovvero di pretendere che a governare fosse una moltitudine indistinta, anziché gli áristoi , i «migliori».

Insomma, pur nell’estrema variabilità di significati, da un lato demokratía indica il dominio coercitivo, esercitato con la forza, di quella parte del popolo che è il démos (con la drastica esclusione delle donne), mentre dall’altro lato essa esprime il sopravvento della componente quantitativamente, ma non qualitativamente, più significativa del popolo.

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