Un altro guaio per Uber

In California dovrà risarcire un'autista per averla trattata come libera professionista e non come dipendente, e potrebbero esserci molti altri casi

(Andrew Caballero-Reynolds/AFP/Getty Images)
(Andrew Caballero-Reynolds/AFP/Getty Images)

L’Ufficio del lavoro della California (Labor Commissioner’s Office) ha stabilito che un’autista del servizio Uber doveva essere trattata come dipendente, e non come una libera professionista. La decisione si applica alla sola persona coinvolta nella causa di lavoro, ma se venisse confermata in appello potrebbe costituire un serio problema per Uber, azienda che deve buona parte dei suoi successi economici al fatto di avere rapporti lavorativi poco stretti con gli autisti: se si stabilisse che gli autisti devono essere trattati come dipendenti a tutti gli effetti, i costi di gestione per la società aumenterebbero e ci potrebbero essere azioni legali collettive (class action) da parte di gruppi di autisti per ricevere indennizzi e risarcimenti di vario tipo.

Le autorità del lavoro della California hanno imposto a Uber di rimborsare Barbara Ann Berwick con 4.125,20 dollari per spese di vario tipo sostenute nelle otto settimane in cui ha lavorato per il servizio lo scorso anno. Secondo l’ordinanza, a differenza di quanto sostiene da sempre l’azienda, gli autisti che lavorano per Uber non ricevono un trattamento da semplici liberi professionisti: devono sottostare a diverse regole imposte dalla società e, tra le altre cose, ricevono dispositivi dall’azienda per la gestione delle corse, compresa un’applicazione che viene disattivata automaticamente se non si accettano corse per 180 giorni. Sulla base di queste e di altre valutazioni, l’Ufficio del lavoro ha stabilito che per le regole della California il trattamento di Berwick non poteva essere di semplice libera professionista, e di conseguenza Uber deve pagare spese e indennità cui avrebbe avuto diretto se fosse stata regolarmente assunta come dipendente.

Uber ha annunciato che farà appello contro la decisione dell’ufficio e, tra le altre cose, ha ricordato che la decisione si applica unicamente al caso di Berwick. Negli ultimi mesi l’azienda ha comunque dovuto sostenere iniziative legali simili in Georgia, Pennsylvania e Texas, nelle quali comunque le autorità competenti hanno dato ragione a Uber, definendo il lavoro degli autisti come da liberi professionisti e non dipendenti. Un mese fa in Florida un ex autista ha ottenuto invece una decisine simile a quella della California, ma anche per quel caso è in corso un appello.

Il problema della corretta classificazione degli autisti non riguarda solamente Uber, ma diverse altre aziende che offrono servizi simili tramite le loro applicazioni per smartphone negli Stati Uniti. Tutte dicono di avere semplicemente un ruolo di intermediari, mettendo in comunicazione gli autisti – che devono provvedere autonomamente all’equipaggiamento, automobile compresa – con i clienti e trattenendo per sé una percentuale su ogni singola corsa per il servizio fornito, che comprende anche la gestione dei pagamenti tramite carta di credito. Questo sistema ha permesso di ridurre al minimo le spese, ottenendo al tempo stesso ricavi molto consistenti: ha entusiasmato gli investitori della Silicon Valley portando a svariati miliardi di investimenti in queste applicazioni.

Uber esiste da circa 5 anni, ha ottenuto miliardi di investimenti (a breve potrebbe ottenere una valutazione intorno ai 50 miliardi di dollari) ed è attiva in 300 città in giro per il mondo. Il numero stesso di autisti è aumentato enormemente: a New York ce ne sono circa 26mila, 15mila a Londra, 10mila a Parigi e decine di migliaia in diverse città della Cina. La rapida crescita è stata comunque accompagnata da molti problemi locali, in parte ancora da risolvere in diversi paesi, dove Uber è stato paragonato a un normale servizio taxi e che quindi dovrebbe essere normato con il classico sistema delle licenze (in Italia ci sono state numerose proteste dei tassisti nel 2014 man mano che Uber aumentava la sua presenza). Il cofondatore dell’azienda, Travis Kalanick, ha comunque seguito una strategia molto determinata riassumibile in: prima apriamo in una città e ci ingrandiamo, poi affrontiamo gli eventuali problemi legali per la presenza del nostro servizio.

Ai problemi con le amministrazioni cittadine si potrebbero aggiungere ora quelli dei rapporti lavorativi con i singoli autisti. La decisione assunta in California potrebbe incentivare altri ex autisti a seguire l’iniziativa di Berwick, chiedere di essere riconosciuti come dipendenti e ottenere rimborsi e indennizzi non fruiti in precedenza. Alcuni autisti hanno già fatto causa tramite una class action per ottenere da Uber il riconoscimento dello status di dipendente e la decisione che riguarda Berwick potrebbe favorirli in tribunale, dicono gli avvocati che se ne stanno occupando.

Il caso della California non dovrebbe avere invece molta rilevanza al di fuori degli Stati Uniti, dove i contratti con gli autisti sono regolamentati in base alle leggi locali. In Italia, per esempio, gli autisti di Uber devono essere professionisti con patente e assicurazione commerciali. Un adulto di almeno 21 anni, con patente e assicurazione auto personali può invece partecipare al servizio alternativo UberPop, attualmente sospeso in seguito a una sentenza del tribunale di Milano.