Com’è oggi la Cité radieuse di Le Corbusier

Un famoso palazzo di Marsiglia a lungo considerato strano e "brutto" oggi ospita una ricchissima attività culturale, anche tra i condomini

((Utente Flickr silvian)
((Utente Flickr silvian)

Anais Ginori, giornalista di Repubblica corrispondente da Parigi, ha raccontato domenica come si vive nella Unité d’Habitation, un palazzo di appartamenti popolari progettato dal celebre architetto francese Le Corbusier e costruito a Marsiglia fra il 1947 e il 1952. La Unité d’Habitation, nota anche come Cité radieuse perché è esposta al sole sia a ovest sia a est, fu ideata da Le Corbusier come un piccolo quartiere, con negozi, sale comuni e una scuola al proprio interno – oltre a un sistema di interfono grazie al quale tutti i condomini potevano parlare gratis fra di loro. Ancora oggi il complesso è costituito da 17 piani e può ospitare fino a 1.600 persone, in 337 appartamenti di 23 tipologie differenti: dal monolocale all’appartamento per dieci persone.

All’inizio, racconta Ginori, il palazzo era considerato eccessivamente bizzarro (ancora oggi alcuni lo giudicano brutto per via della facciata esterna di cemento, prevalentemente grigia): da alcuni anni però gli appartamenti hanno acquisito un notevole valore e oggi costano almeno quattromila euro al metro quadrato. La Cité radieuse, infatti, è considerata oggi uno dei migliori esempi di architettura “brutalista”, che cioè fa largo uso del beton brut, il cemento a vista, così da evidenziare la struttura e accentuare i volumi: oltre che di un modello di vita comune diverso da quello dei normali condomini, e già suggerito da Le Corbusier nella costruzione. Ginori racconta che oggi alcuni negozi come il parrucchiere e la macelleria hanno chiuso – a differenza della scuola e della piscina, ancora attive – e che l’edificio è animato da «una frenetica attività mondana che si aggiunge a quella culturale — teatro, cinema, reading — oppure educativa: l’orto condiviso, i corsi di pittura, yoga, inglese». Nel 2013, inoltre, la terrazza è diventata un museo di arte contemporanea, chiamato MaMo e aperto tutti i giorni.

La “Casa dei Matti” non è al numero zero ma al civico 280 di boulevard Michelet. I marsigliesi la chiamano ancora così, la maison des fadas, la casa dei pazzi, nell’VIII arrondissement, tra mare e montagne. Quando fu inaugurata nel 1952, il New Yorker titolò “Marseille’s Folly”. Un parallelepipedo rettangolare in cemento armato grezzo appoggiato su dei pilastri, con all’interno tutto quello che serve per vivere: dalla scuola al cineclub, dalla panetteria al medico, dalla palestra alla biblioteca, e ovviamente gli appartamenti — trecentotrentasette — però costruiti su due piani, come piccoli villini incastrati uno nell’altro, con una configurazione e volumi mai visti prima.

Una città verticale, così la immaginò il “pazzo” Charles- Edouard Jeanneret, detto Le Corbusier, di cui si celebrano i cinquant’anni della morte. La chiamò Cité Radieuse, città raggiante, perché affacciata a est e ovest in modo da avere il sole tutto il giorno. «All’inizio nessuno voleva venire ad abitare qui» ricorda Suzanne Lherisson, novantatré anni, nelle sue memorie. Nel dopoguerra lo Stato aveva affidato all’architetto un progetto di case popolari visionario, forse troppo. Lherisson è stata una delle prime inquiline, insieme al marito Pierre. Non avevano scelta: erano appartamenti in dotazione ai dipendenti pubblici come loro. Le Corbusier venne a parlare ai pionieri della Cité Radieuse . «Ho riunito qui le condizioni della felicità» disse immodestamente. Nei fatti qualche problemino c’era. Il riscaldamento centralizzato, novità per l’epoca, funzionava male e i primi inverni faceva freddo.

Molti inquilini sperimentavano altre innovazioni come la cucina disegnata da Charlotte Perriand e aperta sul salotto, una bestemmia per i canoni di quegli anni. E poi le porte scorrevoli, gli armadi a muro, una biblioteca per separare gli spazi, il parquet a terra, la scala interna di legno. Le Corbusier aveva arredato le case pensando a ogni dettaglio, persino alla cappa sopra alla cucina a gas, che fino ad allora non esisteva. Doveva essere una comunità: pochi ascensori per favorire gli incontri e un telefono interno che collegava i vari inquilini tra di loro.

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