Il Salone del Libro e l’Arabia Saudita

Si ripete una polemica frequente intorno a eventi culturali o sportivi: i regimi antidemocratici vanno respinti o si possono educare?

Salone Internazionale del Libro di Torino, 15 maggio 2015 (Marco Alpozzi - LaPresse)
Salone Internazionale del Libro di Torino, 15 maggio 2015 (Marco Alpozzi - LaPresse)

Il Salone internazionale del Libro di Torino è la più importante tra le manifestazioni italiane di questo genere e si tiene ogni anno al centro congressi Lingotto Fiere di Torino con la partecipazione di moltissime case editrici e istituzioni culturali. Ogni anno, tra agli spazi espositivi dei vari editori, viene invitato un paese straniero come Paese Ospite d’Onore che partecipa al calendario degli eventi con i suoi maggiori autori, intellettuali, filosofi e giornalisti. Nella 28esima edizione del Salone che si è conclusa lunedì 18 maggio il Paese Ospite d’Onore era per esempio la Germania. Per l’edizione del 2016 è stato annunciato – appena chiusa questa – che il paese ospite sarà l’Arabia Saudita: ma questo annuncio ha creato dissensi e proteste poiché l’Arabia Saudita è un paese governato in modo liberticida e antidemocratico, di cui le vittime principali ma non uniche sono le donne, legalmente sottomesse agli uomini (si ricorda spesso che non possono guidare l’automobile, e in generale non hanno quasi nessun diritto civile); e dove molti giornalisti e blogger sono arrestati e condannati, e infine dove la produzione letteraria è piuttosto censurata e limitata.

La decisione di ospitare l’Arabia Saudita è stata presa da Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero, rispettivamente presidente e direttore uscenti per scadenza di mandato, che sono stati poi sostituiti negli ultimi giorni da Giovanna Milella e Giulia Cogoli. Subito dopo la nomina, la nuova presidente del Salone Giovanna Milella ha dichiarato di «voler ripensare» alla partecipazione dell’Arabia Saudita spiegando:

«Non sono contraria tout-court al fatto che si possa dedicare allo Stato saudita l’evento del prossimo anno, però bisogna pensarci bene: di fronte a un Paese che non garantisce quelle libertà a cui molto teniamo in Occidente, possiamo scegliere tra due atteggiamenti. Uno è quello di chi ritiene l’accoglienza stimolante, per noi ma anche per loro: è un modo per innescare processi democratici. Altri preferiscono chiudere le porte e attendere che qualcosa si smuova laggiù. Io prima di scegliere voglio esaminare l’ipotesi Arabia Saudita con il direttore e con il CDA. Potremmo anche ospitarne due di Paesi, le formule si possono cambiare e arricchire».

Il presidente uscente Picchioni – che nel frattempo è stato accusato di peculato – ha difeso la sua scelta dicendo che «il Salone ha una funzione maieutica» e che ha il compito di «garantire opportunità d’espressione e di dialogo a chi desideri far conoscere la propria cultura». Il comune di Torino (che fa parte dell’assemblea dei soci della Fondazione che dirige il Salone) si è diviso: l’assessore comunale alla Cultura Maurizio Braccialarghe ha detto che «negando all’Arabia Saudita il diritto di essere ospitata si nega pure alla cultura il suo compito lenitivo di evitare la radicalizzazione dello scontro», mentre i consiglieri di centrodestra hanno detto che si opporranno alla partecipazione dell’Arabia. Sul possibile ritiro è intervenuto anche l’ambasciatore saudita a Roma, Rayed Khalid A. Krimly: «La partecipazione a un evento culturale non può essere viziata da un’interpretazione limitativa in senso eurocentrico, univoco e xenofobo. La promozione del dialogo e della cooperazione trova nella valorizzazione delle differenze il momento più nobile».

Una polemica di questo genere al Salone del Libro c’era stata nel 2008, quando l’ospite scelto fu Israele, nei sessant’anni anni dello Stato ebraico: in quel caso la scelta portò a discussioni fra scrittori, intellettuali, politici e a inviti al boicottaggio in nome delle accuse a Israele da parte di alcuni sostenitori dello Stato palestinese e dei diritti violati dei palestinesi in Israele.

Altri interventi nei giorni scorsi ci sono stati sui giornali, da parte di scrittori e commentatori, per la maggior parte critici dell’idea di accogliere come ospiti i rappresentanti di un regime dittatoriale con una rappresentazione della cultura del loro paese parziale e soggetta a censure. I difensori della scelta sostengono invece – come è avvenuto spesso in simili casi di polemiche sui rapporti culturali, o sportivi, con regimi antidemocratici – che la costruzione di rapporti e il favorire aperture sia una strategia con prospettive più promettenti che non l’esclusione.