La resa della Germania nazista

La storia del giorno in cui la vittoria degli Alleati diventò ufficiale e del giornalista che, esattamente 70 anni fa, lo raccontò per primo e la pagò cara

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

La mattina di domenica 6 maggio 1945 Edward Kennedy ricevette una di quelle notizie che ogni giornalista aspetta tutta la vita: era stato scelto per assistere a uno degli eventi più importanti del secolo. Nel suo caso si trattava della resa della Germania nazista alla fine della Seconda guerra mondiale, il conflitto più grande e sanguinoso che l’umanità avesse mai visto. L’esercito statunitense gli chiese di fare una promessa: non avrebbe dovuto diffondere la notizia della resa fino a che non gli fosse stato dato il permesso. Kennedy promise ma non riuscì a restare fedele alla sua parola per più di 24 ore.

La notizia che Kennedy, all’epoca corrispondente di Associated Press, avrebbe dovuto tenere sotto embargo, come si dice in gergo, era attesa da giorni in tutto il mondo. Una settimana prima, il 30 aprile, Adolf Hitler si era suicidato nel suo bunker di Berlino; due giorni dopo la guarnigione nazista della capitale tedesca si era arresa e il 4 maggio l’intero esercito tedesco nel nord Europa aveva fatto lo stesso. La vittoria degli alleati era oramai assicurata, ma la situazione politica europea era delicatissima. «Sono giorni difficili», scrisse all’inizio di maggio il comandante in capo dell’esercito alleato, il generale Dwight D. Eisenhower, che dopo la guerra sarebbe stato per due volte presidente degli Stati Uniti: «Nulla si può fare se non con la più grande cautela».

In quei giorni si cominciavano ad avvertire i primi elementi di quelli che sarebbe stata chiamata la “Guerra fredda” e il clima tra gli alleati, americani e inglesi da un lato e russi dall’altro, era di sospetto reciproco. La preoccupazione più grande era che si verificasse qualcosa di simile a quello che era accaduto nel 1939, sei anni prima, quando Germania e Russia erano alleate. All’epoca i due paesi si stavano spartendo la Polonia, ma visto che i due eserciti non avevano fissato precise zone di demarcazione, si erano verificati una serie di scontri tra i due eserciti che avevano causato numerosi morti. Un incidente del genere nel 1945 avrebbe avuto conseguenze catastrofiche, forse persino una nuova guerra tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Eisenhower era l’uomo incaricato di fare in modo che quegli incidenti non si ripetessero.

Il suo quartier generale a Reims, situato in un istituto tecnico ribattezzato “Little Red School”, era la destinazione di Kennedy e degli altri sedici giornalisti scelti dall’alto comando per assistere alla resa della Germania. Kennedy arrivò in città quando credeva che la firma fosse oramai imminente e fu portato insieme agli altri giornalisti in un’aula spoglia dove furono lasciati ad attendere. Si fece ora di pranzo ma ancora nessuna comunicazione arrivava dall’esercito: l’unica cosa che i giornalisti potevano fare, e che fecero senza risparmiarsi, era fumare sigarette e bere caffè. A un certo punto la tensione dell’attesa fu spezzata quando un paio di giornalisti che non facevano parte del gruppo capirono che stava succedendo qualcosa e si presentarono davanti alla scuola. Ci furono grida e proteste ma alla fine la polizia militare li allontanò. Kennedy guardò l’orologio: era oramai passata mezzanotte ma dall’alto comando non arrivava ancora nessuna notizia. I reporter cominciarono a pensare che qualcosa fosse andato storto.

Avevano ragione: in un’altra sala dell’edificio il negoziatore tedesco, il generale Alfred Jodl, si era rifiutato di firmare e per tutto il pomeriggio aveva ripetuto che una resa senza condizioni della Germania era «impensabile». Descrisse le atrocità commesse dai russi nella Germania orientale e spiegò che c’erano ancora milioni di rifugiati che stavano cercando di fuggire dall’Armata Rossa. L’unico modo di garantire la vita a queste persone era firmare una resa parziale: l’esercito tedesco avrebbe cessato di combattere contro gli angloamericani, ma avrebbe continuato a rallentare l’avanzata dei russi. Era una condizione inaccettabile per Eisenhower: se fosse stata accettate avrebbe certamente causato un conflitto armato con i Russi. Questo scenario fantapolitico era l’ultima disperata speranza dei leader nazisti: spingere americani e inglesi a combattere i russi e quindi costringerli ad allearsi con la Germania in un fronte anti-comunista, così da restare alla guida del paese ed evitare di essere processati per i loro crimini di guerra. Era una situazione delicatissima e Eisenhower decise di affrontarla nel modo più duro possibile. A mezzanotte fece sapere a Jodl che se non avesse firmato subito la resa le truppe angloamericane avrebbero cominciato a sparare contro tutti i soldati tedeschi che tentavano di arrendersi e avrebbero iniziato a ricacciare indietro i rifugiati. Alle due meno un quarto di notte il governo tedesco autorizzò Jodl a firmare.

Mezz’ora dopo, alle 2 e 20, il portavoce dell’esercito finalmente entrò nella stanza dove Kennedy e gli altri erano in attesa da nove ore. I giornalisti furono portati in una stanza a forma di L. Al centro era sistemato un lungo tavolo dietro al quale fumavano in piedi i rappresentanti degli alleati: americani, inglesi, francesi e russi. Per impressionare i tedeschi, Eisenhower aveva fatto appendere alle pareti grandi cartine dell’Europa che mostravano la disposizione degli eserciti alleati e alcune immaginarie linee d’attacco verso le ultime sacche di resistenza tedesche. Kennedy e gli altri giornalisti, insieme a fotografi e cineoperatori, si sistemarono da un lato del tavolo. Alle 2 e 40 gli ufficiali alleati si sedettero dietro la scrivania e i tedeschi furono fatti entrare: Jodl, seguito dall’ammiraglio Hans-Georg von Friedeburg, il suo predecessore nei negoziati che durante i colloqui aveva avuto una crisi da stress, e da un altro ufficiale che faceva da interprete. I tre ufficiali tedeschi si misero in fila, davanti al tavolo degli alleati, fecero schioccare i tacchi degli stivali e si sedettero.

Un ufficiale americano mise davanti a Jodl i documenti con cui i tedeschi accettavano la resa senza condizioni a partire dalla mezzanotte dell’8 maggio. Il documento venne letto e tradotto a Jodl, gli venne chiesto se aveva compreso i termini della resa e Jodl tramite il suo interprete rispose di sì. Jodl firmò le tre copie del documento. Accanto a lui, von Frideburg, sembrava ancora sotto shock e sussultava ogni volta che qualcuno gli passava vicino. Al termine della firma, Jodl chiese di poter parlare. Il permesso gli fu accordato e l’ufficiale nazista si alzò in piedi. Sull’attenti, ma con lo sguardo basso e la voce tremante, Jodl disse: «Con questa firma il popolo e l’esercito tedesco si consegnano nelle mani dei vincitori. In questa guerra che dura oramai da cinque anni i tedeschi hanno sofferto più di qualunque altro popolo al mondo. In questo momento posso solo sperare che i vincitori li trattino con generosità». Non ci fu risposta. Quella sera Eisenhower inviò a Washington il messaggio con cui comunicava la fine della guerra: «La missione delle forze alleate è stata completata alle ore 2 e 41 del 7 maggio 1945».

Il momento della firma in un cinegiornale dell’epoca (qui un’altra versione non montata)

Mentre Eisenhower dava sfoggio di un prodigioso understatement anglosassone, Kennedy e gli altri furono portati in una stanza della scuola per lavorare ai loro articoli. Kennedy batté in fretta il suo articolo e lo fece approvare da un ufficiale della censura: per inviarlo alla sua redazione, però, come aveva promesso, doveva attendere il permesso ufficiale. Alle quattro di mattina, dopo più di un’ora di attesa, il portavoce dell’esercito arrivò con una notizia che fece infuriare tutti i giornalisti presenti: l’annuncio della fine della guerra non avrebbe potuto essere dato prima delle ore 15 del 9 maggio, cioè 36 ore dopo il momento della resa. I giornalisti sommersero il portavoce di grida e proteste, ma non ci fu modo di fargli cambiare idea. Rievocando quel giorno, Kennedy scrisse:

«Ritornammo a Parigi in aereo nella pallida luce dorata di un mattino di maggio. Parigi non è mai stata così bella come vista dal cielo in quel giorno: sormontata dalla cupola bianca del Sacro Cuore mentre i parigini avevano già cominciato a riempire le strade diretti al lavoro, le strade piene di piccoli puntini neri. Che notizie avevamo per loro e per i lavoratori di tutto il mondo! Notizie che gli avrebbero fatto abbandonare i macchinari e festeggiare dopo anni di preoccupazioni e sofferenza.

Per tutta la mattina Kennendy cercò di capire cosa stesse succedendo e perché la notizia della fine della guerra non poteva essere comunicata. Alla fine alcuni ufficiali dell’alto comando gli rivelarono che il problema adesso erano i russi: poche ore dopo la resa di Reims l’alto comando sovietico aveva fatto sapere che il delegato russo non era stato autorizzato a firmare una resa, il documento quindi era invalido e bisognava immediatamente organizzare una nuova cerimonia a Berlino. In realtà nei documenti firmati da Jodl, era già presente l’obbligo per i tedeschi di presentarsi nuovamente a Berlino per una seconda firma, ma i russi resero la faccenda particolarmente urgente. Agli occhi di Kennedy gli alleati stavano tenendo all’oscuro il mondo della notizia più importante del secolo soltanto per permettere ai russi di organizzare meglio il loro spettacolo di propaganda. Kennedy faticava a reprimere il desiderio di far saltare quel piano che giudicava immorale. Poi, alle 14 e 3 minuti dell’8 maggio, arrivò la beffa: il governo tedesco annunciò via radio di essersi arreso e la BBC diede la notizia in tutto il mondo.

Per come la vedeva Kennedy, l’embargo era stato violato. Anche se l’impegno a non rivelare la notizia riguardava soltanto i giornalisti presenti a Reims, Kennedy non si sentiva più vincolato a mantenere la parola data e decise di inviare la notizia. Spedirla direttamente al suo ufficio di New York era impossibile, visto che tutte le linee telegrafiche erano controllate dall’esercito americano, ma Kennedy poteva aggirare il divieto comunicando con l’ufficio di Associated Press di Londra. Tramite i suoi colleghi fece arrivare a New York un resoconto dettagliato della resa, completo di particolari che soltanto un testimone oculare avrebbero potuto dare. Il giorno dopo, la mattina del 9 maggio, la notizia finì in prima pagina sul New York Times. Aver rivelato la notizia costò molto caro a Kennedy: il suo accredito di corrispondente venne immediatamente revocato, così come tutti gli altri accrediti di Associated Press. Quarantaquattro giornalisti firmarono un documento in cui chiedevano che per un periodo punitivo ad Associated Press non fosse più consentito mandare dispacci. Kennedy fu criticato dallo stesso New York Times, che sul suo dispaccio aveva fatto un’intera prima pagina. Dopo averlo richiamato negli Stati Uniti, Associated Press lo licenziò nel novembre di quell’anno.

Nonostante le critiche quasi unanimi, dopo poche settimane divenne chiaro che Kennedy aveva avuto ragione. L’esercito americano aveva trattenuto la notizia soltanto per dare il tempo ai sovietici di organizzare il loro spettacolo. Il dispaccio di Kennedy fu inviato soltanto due ore dopo la trasmissione della BBC, quando oramai la notizia della resa era di pubblico dominio. Eisenhower restituì a Kennedy il suo accredito da corrispondente, un gesto simbolico visto che non c’era più alcuna guerra da raccontare. Nel 2012 l’Associated Press si scusò per averlo licenziato, dicendo di aver gestito l’intera faccenda “nel peggiore dei modi possibili”. Da anni diversi giornalisti chiedono che a Kennedy sia assegnato il premio Pulitzer. Per Kennedy è comunque oramai troppo tardi: morì nel 1963, in un incidente stradale; aveva 58 anni.