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  • Sabato 25 aprile 2015

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"Meglio le facce dei numeri", dice Marco Imarisio sul Corriere, per capire e sentire cosa succede alle persone che attraversano il Mediterraneo

Le operazioni di soccorso sull'isola di Rodi
(Argiris Mantikos/Eurokinissi via AP)
Le operazioni di soccorso sull'isola di Rodi (Argiris Mantikos/Eurokinissi via AP)

Il tema di come si raccontano storie tragiche che hanno continuità che per il pubblico rischiano di diventare ripetitività è tornato a essere discusso tra alcuni giornalisti italiani dopo le ultime stragi di migranti nelle barche che attraversano il Mediterraneo, e con quei viaggi sempre intensissimi e drammatici. I media italiani da una parte sembrano in cerca di formule spaventose quanto generiche (“apocalisse”, “ecatombe”, “vergogna”, erano tra i titoli dei maggiori quotidiani martedì scorso) e di numeri generici quanto spaventosi con cui alzare ogni volta l’asticella dell’impressione; e dall’altra negli stessi media c’è chi si chiede se ci possa essere un modo diverso di raccontare e di far capire cosa succede. Uno di questi ultimi è Marco Imarisio, che oggi sul Corriere della Sera riflette “sulle facce e sui numeri”.

Meglio le facce dei numeri. Quando sono enormi i numeri fanno sempre impressione ma se non puoi associarli a persone in carne e ossa finisce che ben presto smetti di pensarci. Statistiche. Anche una sola faccia, con la sua storia di vittima o di sopravvissuta, può invece aiutarci a capire. Può trasformare cifre e bilanci in vita vera, l’unico antidoto all’assuefazione. Non importa se i migranti a bordo della barca affondata una settimana fa al largo delle coste libiche fossero 700, 850 o mille.
Tanto non lo sapremo mai. Anche questa tragedia lontana è passata. La sua portata emotiva è già scesa. Con l’effetto collaterale che la prossima volta, perché sappiamo tutti che ce ne sarà un’altra, e poi un’altra ancora, l’indignazione, lo sdegno e la vergogna avranno bisogno di un’asticella più alta, di un bilancio ancora più terribile, altrimenti niente. Siamo più sensibili a quel che sentiamo simile a noi.

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– Luca Sofri: La zattera