Un modo diverso di raccontare la mafia

Giuseppe Rizzo critica su Internazionale il modo in cui giornalisti e magistrati sfruttano la carica emotiva dei fatti di mafia per il proprio tornaconto, raccontando però solo un pezzo della storia

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ANSA
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ANSA

Lo scrittore Giuseppe Rizzo ha pubblicato sul sito di Internazionale un lungo articolo nel quale critica il modo con cui si è discusso di mafia negli ultimi anni, invitando a «raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo», cioè quello che lui definisce il “secondo tempo”. Rizzo intende dire che i dati sulle attività della mafia pubblicati negli ultimi anni raccontano una situazione in lento miglioramento. Secondo Rizzo il problema rimane il modo di raccontare le vicende di mafia da parte di alcuni magistrati, politici e giornalisti, che spesso mirano solamente a sfruttarne la forte carica emotiva – innescata da popolari film e libri sulla mafia – per un proprio tornaconto. Scrive Rizzo: «La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto. […] Non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia».

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Mi è capitato di stare dalla parte sbagliata. In Sicilia significa che ho conosciuto e frequentato gente che poi è stata arrestata per associazione di stampo mafioso. Con alcune di queste persone ho avuto rapporti diretti, con altre ci siamo incrociate, con altre ancora ho legami di parentela. La forza dell’impatto di questi incontri va dall’indifferenza al disastro. Tutto questo mi serve per fare un discorso sulla codardia e la complessità che arriva tra poco, prima devo parlare di Ernest Hemingway e di Francis Scott Fitzgerald.

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Ernest Hemingway diceva che ogni generazione è segnata da un evento, e che questo evento forma l’immaginario e i racconti di quella generazione, e cioè il modo di vedere e leggere il mondo. Per la sua generazione, spiegava, quell’evento era stato la prima guerra mondiale. Per chi è nato in Sicilia negli anni settanta, o negli ottanta come me, quell’evento è l’esplosione delle bombe che hanno ucciso Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini che scortavano i due giudici (i nomi, qui e qui). Significativamente, le stragi di Capaci e via d’Amelio entrano nella letteratura italiana in opere pubblicate in questi ultimi cinque anni.

Significativamente, tutti gli autori sono nati a Palermo, e nel 1992 avevano dai quattordici ai venti anni. Pif è nato nel 1972 e ci ha girato un film. Alessandro D’Avenia nel 1977, Corrado Fortuna nel 1978 e Davide Enia nel 1974: tutti e tre ci hanno scritto sopra romanzi e racconti. Un racconto di Enia è ripubblicato in questi giorni in La guerra. Una storia siciliana, libro che raccoglie il lavoro del fotografo Tony Gentile tra il 1989 e il 1996 – tutte le immagini di questa pagina sono tratte da quel volume, e non sono che un assaggio di un lavoro onesto e a tratti disarmante. Per come la vedo io, i romanzi e i film di questi autori si legano inconsapevolmente tra loro per dire due cose: che la Sicilia è una guerra; e che, come per gli americani raccontati da Fitzgerald, nella vita dei siciliani sembra non esserci un secondo atto.

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nella foto: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (ANSA)