Quelli del PD che non stanno con Renzi

Si sono visti sabato a Roma, si è parlato soprattutto delle dichiarazioni bellicose di D'Alema ma c'è stato un acceso dibattito a cui ha risposto domenica Matteo Orfini, presidente del partito

Un momento della convention della minoranza del Partito Democratico, "A sinistra nel Pd, per la democrazia e il lavoro: l'Italia puÚ farcela". Roma 21 marzo 2015. ANSA/ANGELO CARCONI
Un momento della convention della minoranza del Partito Democratico, "A sinistra nel Pd, per la democrazia e il lavoro: l'Italia puÚ farcela". Roma 21 marzo 2015. ANSA/ANGELO CARCONI

Sabato 21 marzo a Roma si sono incontrati i principali esponenti delle minoranze del Partito Democratico. All’assemblea (intitolata “A sinistra nel PD”) oltre ai più importanti oppositori interni del segretario Matteo Renzi – Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Pippo Civati – erano presenti anche Nicola Fratoianni, coordinatore di SEL, e alcuni esponenti della CGIL, il più grande sindacato italiano.

L’assemblea voleva essere «l’occasione per un confronto non solo sulle riforme costituzionali e elettorali» ma anche «sulle condizioni in grado di assicurare la vitalità e l’autorevolezza del sistema democratico» e su questo sono emerse posizioni molto diverse. C’è stato un dibattito interessante, ma i giornali nazionali hanno raccontato soprattutto l’intervento di Massimo D’Alema, ex dirigente del PCI, del PDS e dei DS ed ex presidente del Consiglio, che ha definito il PD di Matteo Renzi «un partito a forte componente personale e anche con un certo carico di arroganza», proponendo alle minoranze presenti di unirsi «per creare una grande associazione per il rinnovamento e la rinascita della sinistra» e di «assestare colpi che lascino il segno» contro Renzi.

A D’Alema – e in generale agli oppositori di Renzi dentro il PD – ha risposto Matteo Orfini, che oggi è presidente del Partito Democratico e in passato è stato stretto collaboratore di D’Alema, nonché fondatore della corrente di sinistra dei “Giovani Turchi”, definita appunto “post-dalemiana”, e avversario di Renzi all’ultimo congresso (Orfini sosteneva Cuperlo). Orfini non era presente all’assemblea di Roma ma in collegamento da Torino ha detto, replicando proprio a D’Alema, che «quando un congresso è finito si lavora per l’unità del partito, non per quella della minoranza». Su Twitter, Orfini ha poi definito i toni di D’Alema come «degni di una rissa da bar» ed è tornato sulla questione argomentando quello che pensa in un articolo pubblicato su Left Wing intitolato “Usciamo insieme dall’acquario” (l’assemblea delle minoranze si era tenuta all’Acquario Romano, un edificio poco distante dalla stazione Termini). Orfini è in qualche modo a metà tra i due schieramenti: non si può definire “renziano”, né per storia né per posizioni politiche, ma negli ultimi mesi ha spesso difeso Renzi e il suo governo dalle critiche dei suoi oppositori interni e dei suoi alleati congressuali (che lo accusano di essere “entrato in maggioranza”).

Forse l’unica cosa che davvero ha unito quella platea è un giudizio non positivo (diciamo così) sull’attuale gestione del Pd e sul suo presunto spostamento a destra. C’è chi parla di mutazione genetica, chi di snaturamento, chi di vendita della casa. Ecco, io credo che queste valutazioni vadano prese sul serio e che se ne debba discutere. Ma penso anche che siano sbagliate.

A volte in politica è utile guardare alla realtà, soprattutto quando è sgradevole. E quella realtà racconta che noi che abbiamo perso il congresso quel mondo non abbiamo saputo rappresentarlo. Certo, ne abbiamo parlato molto, abbiamo fatto molte cose in suo nome, ma evidentemente non è stato sufficiente. Il 25% delle politiche era composto da “quelli che non fanno fatica ad arrivare a fine mese” (lo racconta il rapporto Itanes-Mulino). Il Pd più “di sinistra” guidato da Bersani arrivò terzo tra giovani, operai, disoccupati. Tra i ceti popolari. Un disastro. Al 40% delle europee siamo arrivati proprio recuperando parte di quei voti. E lo abbiamo fatto col Pd considerato meno “di sinistra”, quello guidato da Renzi. Che ne dite, non è forse il caso di riflettere su quelle catalogazioni? E’ più di sinistra un partito che parla dei ceti popolari ma non li rappresenta o un partito che riesce a riaccenderne la speranza? Se questa è la mutazione genetica, evviva la mutazione genetica.

Io credo che la domanda di fondo a cui dobbiamo rispondere noi che abbiamo perso il congresso sia questa: perché Renzi è riuscito dove non siamo riusciti noi. Una parte della risposta sta nelle considerazioni che ieri ha fatto Cuperlo e sulle quali ho scritto un libro qualche anno fa (perdonatemi anche questa autocitazione, lo faccio solo per amore di polemica): non riusciamo a rappresentarli perché ci considerano corresponsabili della loro situazione di debolezza, e lo fanno perché – con buona pace di Bersani – esiste “un prima e un dopo”. Certo, questo non significa che Prodi e Berlusconi siano la stessa cosa, ci mancherebbe. Ma sebbene faccia male dirlo, da molti punti di vista il centrosinistra al governo è stato un fallimento. E ha contribuito a complicare la vita a milioni di persone.

(continua a leggere l’articolo su Left Wing)