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  • Domenica 8 marzo 2015

Il grande discorso di Obama a Selma

Sul ponte dove 50 anni fa ci furono gli scontri tra polizia e attivisti per i diritti degli afroamericani: la stampa americana lo ha definito "potente" ed "emozionante"

Il presidente Barack Obama tiene la mano a Amelia Boynton, che fu una manifestante picchiata durante il "Bloody Sunday", e al democratico John Lewis, sul Edmund Pettus Bridge a Selma, Alabama, il 7 marzo 2015.
(AP Photo/Jacquelyn Martin)
Il presidente Barack Obama tiene la mano a Amelia Boynton, che fu una manifestante picchiata durante il "Bloody Sunday", e al democratico John Lewis, sul Edmund Pettus Bridge a Selma, Alabama, il 7 marzo 2015. (AP Photo/Jacquelyn Martin)

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha tenuto sabato 7 marzo un lungo discorso alla fine del ponte Edmund Pettus della piccola città di Selma, in Alabama. Nello stesso luogo, il 7 marzo 1965, la polizia e un gruppo di cittadini volontari assaltarono seicento persone che stavano manifestando per i diritti degli afroamericani e per la morte di un loro attivista. Fu uno dei momenti più importanti nella battaglia per i diritti civili dei neri americani: spinse l’allora presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, a promulgare il “Voting Rights Act”, la legge che vietò le discriminazioni elettorali su base razziale. Ieri circa 40mila persone hanno ascoltato Obama parlare di diritti civili, della storia comune del popolo americano e dei progressi compiuti dalla società americana negli ultimi decenni. I giornali americani hanno scritto che quello di Obama è stato uno dei suoi migliori discorsi di sempre (cosa rara: Obama è noto per essere un ottimo oratore), e lo hanno definito «potente» ed «emozionante» (qui ce n’è una trascrizione completa).

In alcuni dei passaggi più citati, Obama ha parlato delle discriminazioni che ancora oggi subiscono i neri negli Stati Uniti, citando anche il controverso rapporto del dipartimento di Giustizia sull’uccisione del 18enne nero Michael Brown a Ferguson (secondo il quale l’agente che l’ha ucciso non verrà incriminato), invitando però a riconoscere i progressi compiuti negli ultimi anni.

Un errore comune è pensare che il razzismo sia stato sconfitto, che il lavoro iniziato dagli uomini e dalle donne che erano presenti qui a Selma sia concluso, e che ogni tensione razziale rimasta sia frutto di situazioni contestuali. Non abbiamo bisogno del rapporto su Ferguson per sapere che questo non è vero. Dobbiamo solamente aprire i nostri occhi, le nostre orecchie, e i nostri cuori, e accettare che il razzismo che c’era in passato è ancora un’ombra sul nostro presente. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la battaglia non è ancora stata vinta, e che entrare in un’epoca nella quale saremo giudicati solo per quello che siamo significa ammettere queste cose. […]

Ma rifiuto di ammettere che niente sia cambiato, nel frattempo. Ciò che è accaduto a Ferguson può non essere un fatto isolato, ma non si tratta più di un comportamento endemico, legittimato dal costume e dalle leggi, cosa che poteva dirsi prima della nascita del movimento per i diritti civili.

Obama ha anche invitato il Congresso ad approvare di nuovo il Voting Rights Act, considerevolmente indebolito da una sentenza della Corte Suprema del 2013: in base ad essa infatti le autorità statali e locali hanno oggi la possibilità di approvare leggi che rendono più complicate le procedure di voto – per esempio chiedendo che al seggio venga esibito un documento con una foto al momento – cosa che danneggia perlopiù i membri di minoranze etniche. Obama si è lamentato del fatto che il Voting Rights Act sia in pratica diventato argomento del dibattito politico, invece che una legge appoggiata in maniera bipartisan: le leggi per rendere più difficili le procedure di voto sono infatti state approvate da amministrazioni locali repubblicane.

Sull’Atlantic, Matt Ford ha scritto che nel lungo discorso di Obama c’è stato anche parecchio nazionalismo, forse per bilanciare le critiche di alcuni suoi avversari politici che da anni lo giudicano troppo poco nazionalista: l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, per esempio, lo scorso mese ha detto che Obama «non ama l’America». Obama ha sviluppato una retorica nazionalista diversa da quella dell’«America perfetta»: si è concentrato sulle difficoltà comuni subite in passato dagli americani, «cucendo tutti questi episodi negativi della storia americana in una specie di mito civile».

Siamo gli immigrati che hanno viaggiato da clandestini per raggiungere queste spiagge: sopravvissuti all’Olocausto, defezionisti dell’URSS, gente che è scappata dal Sudan a causa della guerra. Siamo quelli che hanno lottato per guadare il Rio Grande perché volevano un futuro migliore per i loro figli. Ecco come siamo diventati quello che siamo.

Siamo gli schiavi che hanno costruito la Casa Bianca e retto l’economia del Sud. Siamo i contadini che si sono aperti verso l’Ovest, e gli innumerevoli operai che hanno posato binari e costruito grattacieli, e si sono organizzati e battuti per i diritti dei lavoratori.

Siamo i soldati dalla faccia pulita che hanno lottato per liberare un continente: siamo i piloti Tuskeegee, i decrittatori Navajo e i giappo-americani che hanno combattuto per il proprio paese anche quando questo gli negava la libertà. Siamo i pompieri che sono accorsi la mattina dell’11 settembre, e i volontari che si sono arruolati per andare a combattere in Afghanistan e Iraq.