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  • Domenica 8 marzo 2015

Elogio delle dinastie americane

Un editoriale del Washington Post sostiene che i Roosevelt, i Kennedy e i Clinton abbiano prodotto ottimi leader politici, nonostante le accuse di gestione familiare del potere

di Matthew Dallek – Washington Post

FILE - In this August 23, 1963 file photo, Sen. Edward M. Kennedy, center, poses with his brothers U. S. Attorney General Robert F. Kennedy, left, and President John F. Kennedy at the White House in Washington. (AP Photo, File)
FILE - In this August 23, 1963 file photo, Sen. Edward M. Kennedy, center, poses with his brothers U. S. Attorney General Robert F. Kennedy, left, and President John F. Kennedy at the White House in Washington. (AP Photo, File)

Matthew Dallek è un professore associato alla George Washington University’s Graduate School of Political Management. Al momento sta scrivendo un libro sulle politiche di difesa durante la Seconda guerra mondiale.

Lo scorso anno, quando Jeb Bush stava pensando a una sua eventuale candidatura, sua madre Barbara ha detto ciò che pensa gran parte degli americani: escludendo «i Kennedy, i Clinton e i Bush, ci sono un sacco di altre famiglie» che dovrebbero essere considerate “materiale da presidenza”. Un sondaggio di NBC News e del Wall Street Journal ha rivelato che il 70 per cento delle persone contattate crede che una competizione Bush-Clinton per la prossima presidenza americana sarebbe di cattivo gusto. L’editorialista del New York Times Ross Douthat ha detto: «il dominio Bush-Clinton è probabilmente collegato, in qualche maniera, al consolidamento delle élite e ad altri paradigmi non positivi della società americana».

La successione dinastica non è quello che avevano in mente i padri fondatori degli Stati Uniti. Nel 1786 Thomas Jefferson scrisse a George Washington che «un’aristocrazia ereditaria trasformerà la forma del nostro governo dalla migliore alla peggiore del mondo». La sua versione più deteriore, cioè quella che si può trovare in posti come la Corea del Nord e la Siria, evoca l’autoritarismo. Il sistema repubblicano degli Stati Uniti comunque non è in pericolo. Gli americani possiedono una specie di preferenza istintiva verso le persone che prima di entrare alla Casa Bianca sono nate in contesti sfavorevoli. Non è una coincidenza che siano stati i candidati più “alla mano” a vincere le elezioni più recenti. Un recente sondaggio del Washington Post ha mostrato che il 33 per cento degli elettori registrati contattati ha detto che probabilmente non voterà per Jeb Bush proprio per via del suo cognome, mentre il 14 per cento ha detto lo stesso di Hillary Clinton. Il concetto di dinastia sembra essere in contraddizione con i valori che hanno reso gli Stati Uniti una democrazia solida.

Ma non è così. I fattori che rendono un certo presidente adatto a rappresentare la classe media e quella operaia sono molto più complicati. Il benessere – fama, ricchezza e status sociale – è stato importante sin dalle prime elezioni, e la successione dinastica ha spesso prodotto capi politici efficienti in momenti molto delicati della storia americana. Questo perché i cambiamenti politici avvengono in maniera graduale. Una famiglia che sposa una certa causa nell’arco di più generazioni ha più possibilità di realizzarla. Fare parte di una dinastia comporta anche acquisire una certa esperienza e scaltrezza nel governare, cose di cui una democrazia ingombrante come quella americana ha un gran bisogno. La nobiltà comporta degli obblighi, insomma: e questi possono essere utili alla causa del paese.

I Roosevelt (Theodore e Franklin) e i Kennedy (John, Robert e Edward) hanno contribuito a costruire l’architettura del liberalismo moderno, usando il loro cognome per perseguire una causa. I Bush (George senior e suo figlio) hanno contribuito a inventare il conservatorismo post Guerra Fredda. Se Hillary Clinton e Jeb Bush riusciranno a dimostrare che possono candidarsi per una certa causa, meriteranno di essere considerati piuttosto che derisi. Si meritano una possibilità proprio a causa dei loro cognomi.

Nel corso del 20esimo secolo i cittadini statunitensi hanno cominciato a esercitare sempre più influenza sul sistema politico e non sono mai stati troppo preoccupati riguardo possibili trame di tirannia da parte di una certa famiglia. Le minacce provenivano da ideali politici come il fascismo o il comunismo, che a loro volta erano state generate dall’insicurezza economica e dalla diffusione di ideologie, tra le altre cose: nulla che avesse a che fare con il potere dinastico. I politici che hanno utilizzato il loro cognome nell’interesse pubblico invece di perseguire il proprio bene benessere sono stati visti molto favorevolmente.

I Roosevelt hanno usato la loro dinastia per promuovere la causa del progressismo: è impossibile immaginare i successi di Franklin Roosevelt senza il modello di Theodore, suo cugino. Franklin lo studiava da vicino: lo andava a trovare alla Casa Bianca, ne imitava la carriera politica (Harvard, la Columbia, l’amministrazione di New York, la Marina, il governatorato di New York, la presidenza). Aveva imparato da Theodore a fare affidamento sulle persone che provenivano da un contesto sociale diverso dal loro: Franklin modellò la sua credenza politica e i suoi provvedimenti sugli sforzi di Theodore di ridurre la concentrazione del potere economico, per stare dalla parte di chi aveva di meno.

Essere un Kennedy rese John, Robert ed Edward dei leader migliori. JFK utilizzò la ricchezza e la fama di suo padre per ottenere il potere, ma imparò anche dai suoi errori: diventò un eroe di guerra e si oppose strenuamente alla minaccia comunista, cancellando le accuse di isolazionismo rivolte in passato al padre. E fu istruito dal padre riguardo il suo status sociale di privilegiato, e di come questo comportasse degli obblighi morali e politici. Dopo l’assassinio di JFK, Robert “Bobby” Kennedy – che morì nel 1968 poco dopo essersi candidato a presidente – fece incorniciare un pezzo di carta su cui suo fratello aveva scritto solamente “povertà”. Divenne ossessionato dal problema, e in generale lo pervase «uno sforzo costante nel realizzare l’eredità di suo fratello». Lo stesso discorso vale per Edward, che ha passato molti anni al Congresso cercando di diffondere una visione delle cose “alle Kennedy”. Le commissioni che ha presieduto – Salute, Educazione, Lavoro e Pensioni – fanno parte della stessa piattaforma politica portata avanti dai suoi fratelli. Era il “nonno” della riforma sanitaria, approvata nel 2009 dopo la sua morte.

Hillary Clinton e Jeb Bush hanno già avuto diversi problemi. Da quando ha lasciato la Casa Bianca, Clinton ha messo da parte un notevole patrimonio personale e ha attratto società private e investitori stranieri verso la sua fondazione, mentre l’aura di “predestinazione” che circondava la sua campagna del 2008 è ormai lontana. Le ultime notizie sui suoi guai con le mail non l’aiuteranno. Il pregiudizio nei confronti di Jeb Bush è ancora più grande. Suo padre è stato presidente per un solo mandato, e l’eredità di suo fratello consiste in una guerra pasticciata e nel collasso economico. Eppure, Clinton e Bush dovrebbero considerare i propri cognomi come un vantaggio da sfruttare.

Clinton sarà probabilmente la candidata più competente dell’era moderna – grazie all’esperienza che non avrebbe avuto se non fosse stata moglie di Bill. Ha contribuito a costruire l’agenda economica e sociale della Casa Bianca per otto anni ed è sopravvissuta a molti scandali (perlopiù pseudoscandali), che l’hanno preparata per le vicissitudini che potrebbe vivere da presidente. La “dinastia Clinton” la lega inoltre a iniziative prese ormai decenni fa. Da first lady, e poi da senatore e da segretario di Stato, Clinton ha promosso le opportunità economiche, ha spinto per la parità di genere e ha fatto campagna per i diritti umani e la tolleranza in giro per il mondo. La sua capacità di utilizzare conoscenze ed esperienze pregresse per l’interesse pubblico dovrebbe essere sottolineata, e non nascosta.

Il caso di Bush è invece più complicato. Di fronte a sé ha due modelli: c’è il pragmatico conservatorismo di suo padre, che nel 1988 ha difeso l’eredità di Reagan, poi ha costretto l’ex presidente iracheno Saddam Hussein a sgombrare il Kuwait e ha piantato i chiodi sulla bara del comunismo (ma al contempo ha realizzato che mandare l’esercito a Baghdad sarebbe stato poco saggio, e fu d’accordo nell’alzare le tasse tramite una legge bipartisan). Bush figlio era un politico più dotato, ma il suo conservatorismo ideologico ha rovinato la sua presidenza, che molti storici considereranno probabilmente un fallimento. Se Jeb riuscirà a trovare il modo di utilizzare il pragmatismo del padre e la difesa della libertà del fratello, minimizzandone l’ideologia che ci stava dietro, potrebbe fare al caso dei conservatori e promettere un governo di destra più responsabile. Da governatore della Florida, fra l’altro, fu un capo politico molto più saggio di suo fratello e di suo padre: ha tagliato le tasse, approvato voucher per le scuole private e firmato una legge a favore della legittima difesa. Allo stesso tempo, ha compreso che l’ideologia non può sostituire il buon governo, e ha ottenuto persino il 60 per cento dei voti degli ispanici. Con queste cose in mente, Jeb può essere un presidente più efficiente dei primi due Bush.

Jeb Bush e Hillary Clinton – consumati esperti della politica che messi insieme hanno lavorato a 10 campagne presidenziali – sono dei candidati formidabili. Piuttosto che alimentare le paure che un nuovo elitismo stia congiurando assieme ai guai della democrazia americana, i cognomi di Hillary Clinton e Jeb Bush dovrebbero ricordarci che le dinastie politiche sono state e possono continuare ad essere delle forze impegnate nel progresso politico e sociale.

nella foto: da sinistra a destra, in una foto del 1963: Robert F. Kennedy, Edward M. Kennedy e John F. Kennedy (AP Photo)

©Washington Post