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  • Giovedì 5 marzo 2015

Il terrorista di al Qaida diventato una spia

Aimen Dean ha raccontato a BBC i suoi primi anni di jihad in Bosnia, compreso il giuramento a Osama bin Laden, e come poi cambiò idea e lavorò per i servizi segreti britannici

La sezione “Magazine” del sito BBC ha pubblicato un lungo articolo che racconta la storia di un uomo che si fa chiamare Aimen Dean (non è il suo vero nome): uno dei primi militanti di al Qaida poi diventato una spia per i servizi segreti britannici. L’articolo riprende un’intervista fatta dal giornalista Peter Marshall a Dean e trasmessa su BBC Radio 4 il 3 marzo: parla della vita di Dean, dalla sua prima esperienza di jihad in difesa dei musulmani bosniaci, dell’incontro con Osama bin Laden, dei primi dubbi sulla sua appartenenza ad al Qaida e poi del suo lavoro all’MI6, i servizi segreti britannici. Dean ha scritto anche un libro: si chiama “The Eternal Bridge Over the River Innocence” e racconta estesamente la sua storia. La vita da spia di Dean è finita otto anni fa, quando uno scrittore americano ha rivelato troppi dettagli sul suo conto e ha reso praticamente pubblica la sua identità. L’MI6 ha la politica di non confermare né negare le storie che lo riguardano: BBC ha detto però che è stata in grado di confermare diversi punti della storia raccontata da Dean (ci sono comunque molti punti poco chiari: per esempio non viene citato l’attacco dell’11 settembre 2001, anno in cui Dean aveva già cominciato a lavorare per l’MI6).

La prima esperienza in Bosnia
Dean ha passato la sua infanzia e parte della sua adolescenza in Arabia Saudita, dove era considerato un prodigio degli studi sull’Islam. In quel periodo – anni Ottanta e Novanta – nel regno saudita cominciava a diffondersi l’idea che il jihad fosse un concetto nobile. Nel 1979 l’Unione Sovietica aveva invaso l’Afghanistan e molti musulmani erano andati nel paese a combattere come mujaheddin unendosi a un movimento di resistenza finanziato, tra gli altri, dagli Stati Uniti. All’inizio degli anni Novanta, Dean aveva cominciato a seguire anche gli eventi in Jugoslavia, in particolare la difficile situazione dei bosniaci musulmani minacciati dal nazionalismo serbo. Dean decise di andare a combattere in Bosnia insieme al suo amico Khalid al Hajj, che poi divenne capo di al Qaida in Arabia Saudita. Tra le altre cose, ricevette addestramento militare e gli furono insegnate tecniche di guerra che non avrebbe mai pensato di poter imparare.

«È stata l’esperienza che più mi ha fatto aprire gli occhi in tutta la mia vita. Ero un nerd serioso dell’Arabia Saudita fino a poche settimane prima e improvvisamente mi trovavo sulle montagne della Bosnia con un fucile AK-47 e un immenso senso di potere. Avevo la sensazione che stavo scrivendo la storia, invece che limitarmi a guardarla».

L’entrata in al Qaida
Con la fine della guerra in Bosnia, racconta Dean, le cose cominciarono a cambiare: i combattenti sopravvissuti cominciarono a prendere posizioni sempre più anti-occidentali, come se pensassero che l’Occidente stesse combattendo l’Islam in quanto religione. “Fu facile trasformare i mujaheddin in jihadisti”. Nel frattempo, alla fine degli anni Ottanta, il ricco sceicco saudita Osama bin Laden aveva fondato al Qaida, un gruppo fondamentalista islamico con l’ambizione di minacciare direttamente l’Occidente. Dean ha raccontato che la Bosnia fu una scuola per i futuri leader di al Qaida: tra questi c’era anche il pakistano Khalid Sheikh Mohammed, che sarebbe poi diventato noto per avere architettato gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York. Anche Dean si unì ad al Qaida:

«Fui invitato a Kandahar [città afghana dove al Qaida era molto forte, ndr] per prestare giuramento, e come tutti quelli che prestavano giuramento a Osama bin Laden l’ho incontrato faccia a faccia. Lui disse che sarebbero venuti molti, molti anni di difficoltà e disagi e che la causa del jihad non era iniziata né sarebbe finita con lui»

La militanza in al Qaida e i primi dubbi
In Afghanistan, Dean fu incaricato di addestrare le reclute di al Qaida – molte delle quali provenienti dallo Yemen – con i concetti basilari della teologia islamica e della pratica religiosa. Il suo incarico gli diede modo di capire qualcosa di più sulle motivazioni che spingevano tanti uomini a unirsi al jihad. «Non c’è un unico processo di “radicalizzazione”», dice Dean. «Alcuni impiegano anni a convincersi di voler combattere la guerra santa, altri pochi minuti. Alcuni arrivano dopo avere frequentato seminari religiosi, altri sono appena usciti da un night club». La cosa che li accomuna, aggiunge Dean, è che tutti vogliono il martirio e la redenzione, anche se a livelli diversi. Dean racconta anche i primi grossi dubbi sulla sua militanza in al Qaida gli sono venuti dopo gli attentati del 1998 alle ambasciate americane di Nairobi, in Kenya, e Dar es Salaam, in Tanzania, che uccisero oltre 240 persone e ne ferirono altre 5mila.

«Come teologo, è da quel momento che ho cominciato ad avere dei dubbi e a fare domande. Ricordo che andai da Abdullah al Mohaja, che di fatto era il muftì di al Qaida, e gli dissi: “Non è che ho dei dubbi o cose del genere, ma potresti spiegarmi quale sarebbe la giustificazione religiosa per attaccare un’ambasciata? Che sì è del nemico, ma allo stesso tempo è circondata da moltissime altre persone che potrebbero morire nell’attacco”. Lui mi disse, beh, c’è una fatwa risalente al Tredicesimo secolo d.C. che vale per tutto il mondo musulmano, che legittima l’attacco al nemico anche se questo significa dei morti civili che sono stati usati dal nemico come scudi umani.»

Dean andò a cercarsi da sé la fatwa in questione e scoprì che fu emanata in risposta a una domanda posta da alcune città musulmane dell’Asia Centrale. La domanda era: “I mongoli ci stanno invadendo. Ogni volta che conquistano una città si prendono una parte della popolazione, un migliaio, o forse due o tre migliaia, e la spingono verso le mura di un’altra città. Noi dobbiamo sparare contro la popolazione musulmana, che viene spinta contro la sua volontà verso le mura della nostra città, o no?”. E la fatwa, ricorda Dean, diceva: “Sì, questo è il caso in cui i mongoli usano i civili musulmani come scudi umani per raggiungere un obiettivo militare e se voi non gli sparate finirete per essere uccisi”. Dean si chiese: “cosa c’entra questa fatwa con gli attentati in Kenya e Tanzania?”.

Diventare una spia per l’MI6
Dean era stato un jihadista per quattro anni, ma quando cominciò ad avere dei dubbi dopo gli attentati del 1998 disse che doveva tornare nel Golfo per ricevere delle cure mediche. In quel momento “finì nelle mani dell’MI6”, i servizi segreti britannici (non è chiaro come sia avvenuto il contatto). Il 16 dicembre dello stesso anno Dean arrivò a Londra e subì un processo di “debriefing”, cioè raccontò tutto quello che sapeva di al Qaida e dei suoi leader. Poi gli fu proposto di tornare in Afghanistan e lavorare come spia: lui accettò, nonostante le difficoltà morali – a quel punto – di dover assistere alla pianificazione di attacchi terroristici. Dean cominciò a fare avanti e indietro tra Regno Unito e Afghanistan, lavorando per l’MI6. Nel frattempo faceva credere ad al Qaida di essere ancora un jihadista.

Durante i periodi passati a Londra, Dean fornì diverse informazioni all’MI6 su alcuni personaggi poi diventati noti anche sui giornali internazionali, come Abu Hamza, condannato all’inizio del 2015 negli Stati Uniti per terrorismo, e Abu Qatada, accusato di terrorismo da un tribunale in Giordania lo scorso autunno. Dean dice che grazie al suo lavoro i servizi britannici sono stati in grado di evitare alcuni attentati contro i civili. Dean ha raccontato anche di un attacco chimico che al Qaida stava progettando alla metropolitana di New York e che fu annullato su ordine di Ayman al Zawahiri, allora numero due di al Qaida (oggi è il capo, ha preso il posto di bin Laden dopo la sua uccisione):

«C’era una cellula che disse a Zawahiri, “siamo in possesso di quest’arma, sappiamo come usarla e sappiamo come trasportarla e abbiamo individuato un obiettivo. È la metropolitana di New York, perché crediamo che il sistema della metropolitana, con il suo meccanismo di ventilazione, potrebbe essere un veicolo perfetto per diffondere il gas”. E fu qui che Zawahiri disse, “no, non fatelo, perché la ritorsione potrebbe essere troppo violenta”».

nella foto: Aimen Dean (BBC)