Le università italiane e gli studenti transgender

La storia di una studentessa dell'Università di Catania che ha ottenuto il “doppio libretto”, raccontata sul Corriere della Sera

Supporters of lesbian, gay, bisexual, and transgender (LGBT) groups wave a huge rainbow banner as they march at the University of the Philippines (UP) campus in Manila on September 26, 2014. The march called for the need for policies that will combat discrimination against students based on sexual orientation and gender identity and expression. AFP PHOTO / NOEL CELIS (Photo credit should read NOEL CELIS/AFP/Getty Images)
Supporters of lesbian, gay, bisexual, and transgender (LGBT) groups wave a huge rainbow banner as they march at the University of the Philippines (UP) campus in Manila on September 26, 2014. The march called for the need for policies that will combat discrimination against students based on sexual orientation and gender identity and expression. AFP PHOTO / NOEL CELIS (Photo credit should read NOEL CELIS/AFP/Getty Images)

Sul Corriere della Sera di sabato 14 febbraio Elena Tebano racconta la storia di Agnese Vittoria, una studentessa transgender di 24 anni che è riuscita a ottenere dall’Università di Catania il permesso per un doppio libretto universitario: uno con il suo nome registrato all’anagrafe, Giuseppe, visibile solo alla segreteria dell’Università, e uno con quello d’adozione, Agnese, pubblico. Vittoria ha spiegato di avere fatto questa richiesta dopo essersi sentita a disagio quando i professori facevano l’appello agli esami chiamandola con il suo nome anagrafico. In Italia ci sono altre università – come quella di Torino (dal 2003), Milano, Padova, Verona, Bologna, Bari, Napoli e Urbino – che permettono agli studenti transgender di avere un doppio libretto, oppure che adottano metodi simili.

Quando Agnese Vittoria ha superato l’esame di francese all’università di Catania a farla felice non sono stati i tre crediti ottenuti, ma l’attestato che le hanno consegnato: sopra c’era stampato il suo nome al femminile e il titolo «studentessa». Non sembrerebbe niente di straordinario. Ma solo a luglio scorso, all’appello per l’esame di etica della comunicazione, il professore aveva chiamato Giuseppe Vittoria. E lei si era dovuta alzare sui tacchi a spillo per spiegare che, sì, Giuseppe Vittoria era proprio lei. È il nome con cui è registrata all’anagrafe: Agnese, 24 anni, è «transgender». Nata in un corpo maschile, ha deciso di diventare la donna che «fin dall’infanzia» si è sempre «sentita di essere». E così, a maggio, sostenuta dai Radicali catanesi, ha chiesto al suo ateneo di poter usare un alias nel percorso di studi. A ottobre il via libera: una sorta di doppio libretto informatico. Da una parte c’è quello «legale», con il suo nome anagrafico, visibile solo alla segreteria; dall’altra quello «pubblico», da mostrare a professori e compagni, che riporta invece il nome d’adozione corrispondente all’aspetto fisico. «Per me è fondamentale — dice Agnese—. Prima, ogni volta che avevo un test dovevo affrontare sguardi inquisitori, risatine, umiliazioni. Ora è tutto più facile».

Negli Stati Uniti sono circa un centinaio le università che permettono agli iscritti di scegliere un nome più adatto al loro nuovo genere. Ed è di pochi giorni fa la notizia che l’università del Vermont ha anche riconosciuto a una sua matricola l’uso del pronome «they», cioè «loro», al posto di «lei» o «lui»: Rocko Gieselman, 21 anni, si definisce «genderqueer» («trasversale ai generi») e rivendica di appartenere a un terzo genere «neutrale».

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