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  • Mercoledì 14 gennaio 2015

Storia di Giorgio Napolitano

Il racconto e le foto dell'unico che è stato Presidente della Repubblica per due mandati, e che si è dimesso oggi

Giorgio Napolitano dopo aver giurato per il secondo mandato da Presidente della Repubblica, alla Camera, 22 aprile 2013. Insieme a lui, il presidente della Camera Laura Boldrini e il presidente del Senato Piero Grasso. 
(Mauro Scrobogna /LaPresse)
Giorgio Napolitano dopo aver giurato per il secondo mandato da Presidente della Repubblica, alla Camera, 22 aprile 2013. Insieme a lui, il presidente della Camera Laura Boldrini e il presidente del Senato Piero Grasso. (Mauro Scrobogna /LaPresse)

Giorgio Napolitano si è dimesso, oggi 14 gennaio, da Presidente della Repubblica: ha firmato l’atto di dimissioni alle 10:35 e alle 12 ha lasciato il palazzo del Quirinale, diretto alla sua casa nel quartiere Monti di Roma. Le dimissioni erano attese: le aveva annunciate lo stesso Napolitano durante il tradizionale discorso di fine anno. Napolitano, che ha 89 anni, era presidente dal 2006: è stato rieletto nel 2013 – è l’unico ad aver ricoperto la carica due volte – per sbloccare la complicata situazione politica e parlamentare creata dalle elezioni politiche ma ha sempre detto di considerare il suo eccezionale secondo mandato “a tempo”. Napolitano ha ribadito più volte di averlo accettato per garantire l’avvio di importanti e necessarie riforme, avviate negli ultimi mesi dal governo di Matteo Renzi.

Napolitano è stato parlamentare dalla II alla XII legislatura, ovvero dal 1953 al 1996, saltando la IV. È stato iscritto ai Gruppi Universitari Fascisti, poi è stato un importante dirigente del Partito Comunista, ha recitato a teatro e ha scritto sonetti. Venne eletto diverse volte al parlamento europeo, è stato presidente della Camera, ministro degli Interni e senatore a vita. Nel 1956 approvò l’invasione sovietica dell’Ungheria e nel 1968 condannò quella della Cecoslovacchia. All’interno del PCI fu prima un riformista, poi capo della corrente cosiddetta dei “miglioristi” e nemico di Berlinguer: una vita intensa.

I primi anni e l’iscrizione al PCI
Giorgio Napolitano è nato a Napoli il 29 giugno del 1925 in una famiglia della buona borghesia, tre anni dopo l’inizio del ventennio fascista. Il padre, Giovanni, era un avvocato e poeta, originario di Gallo di Comiziano, un piccolo paese della provincia di Napoli. La madre, Carolina Bobbio, era di origini piemontesi. Nei primi anni di vita abitò a Napoli, in via Monte di Dio, nei Quartieri Spagnoli a pochi passi da piazza del Plebiscito. Ha studiato al liceo classico Umberto I di Napoli, tranne l’ultimo anno, quando ha studiato a Padova dove si era trasferita la famiglia, diplomandosi al liceo “Tito Livio”. Si è laureato in giurisprudenza all’Università di Napoli Federico II nel 1947 con un tesi di economia politica, che aveva il titolo Il mancato sviluppo del mezzogiorno.

Durante l’università, Napolitano si iscrisse ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF), un gruppo base volontaria degli studenti dell’università e dell’accademia. All’interno del GUF, Napolitano prese parte alle attività teatrali (Teatroguf) e cinematografiche (Cineguf). Recitò anche in alcuni spettacoli – tra cui, nel ruolo di protagonista, in Viaggio a Cardiff di William Butler Yeats – messi in scena dal GUF a Palazzo Nobili, a Napoli. La compagnia si chiamava Teatro degli Illusi. Scrisse anche alcuni sonetti in dialetto napoletano con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli.

Molti anni dopo Napolitano spiegò la sua appartenenza ai GUF, e la sua risposta venne riportata in un articolo del 2006 pubblicato da Edmondo Berselli. In quell’occasione, lo definì «un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino a un certo punto tollerato». All’interno del GUF e nell’ambiente universitario conobbe alcuni degli uomini che lo avrebbero accompagnato nel resto della sua carriera. Tra questi altri c’erano Antonio Ghirelli, che sarebbe diventato giornalista: direttore del TG2, dell’Avanti! e collaboratore del Sole 24 ore, morto l’anno scorso. Ghirelli – come ha detto lo stesso Napolitano – lo «convinse della dolorosa necessità che l’Italia per salvarsi doveva perdere la guerra». Conobbe anche il regista teatrale e drammaturgo Giuseppe Patroni Griffi, morto nel 2005, e il regista cinematografico Francesco Rosi, e divenne amico di molti altri scrittori, registi e giornalisti.

Dall’iscrizione al PCI all’invasione dell’Ungheria
All’interno del PCI Napolitano fece a lungo parte della corrente riformista, favorevole alla cosiddetta “via italiana al socialismo”. Per i riformisti, la strada per arrivare al socialismo non era la contrapposizione netta al capitalismo o la rivoluzione. Bisognava portare avanti graduali riforme, con l’aiuto dei partiti socialisti italiani e ispirandosi ai partiti socialdemocratici europei. I riformisti furono sempre in contrapposizione con l’ala più radicale e di sinistra del PCI. Il principale esponente riformista era Giorgio Amendola, ma dopo la sua morte, negli anni Ottanta, Napolitano fondò la sua corrente di cui restò a lungo il capo: i “miglioristi”.

L’adesione di Napolitano al comunismo moderato e riformista non fu immediata: fu un percorso lungo che nella sua autobiografia descrisse come «un’evoluzione» piena di un «grave tormento autocritico». Secondo alcuni biografi, Napolitano prese i primi contatti con gli esponenti del PCI già nel 1944, tramite le sue amicizie nei circoli intellettuali e culturali di Napoli, che era già stata liberata dagli Alleati l’anno prima. Nel novembre del 1945, pochi mesi dopo la fine della guerra, si iscrisse al PCI. Prima di laurearsi nel 1947 era già divenuto segretario federale di Napoli e Caserta. Nel 1953 Napolitano venne eletto per la prima volta al parlamento: da allora e fino al 1996, con l’unica eccezione della IV legislatura, venne sempre rieletto nella circoscrizione di Napoli.

Il momento più drammatico della sua partecipazione al PCI, come ha raccontato lui stesso, fu causato dall’invasione sovietica dell’Ungheria. In seguito agli accordi di pace con cui era stata conclusa la Seconda Guerra Mondiale, l’Ungheria, come il resto dell’Europa orientale, si era trovata nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica. Ovunque erano state instaurate dall’Armata Rossa delle “Repubbliche popolari”: dei regimi fantoccio controllati da Mosca. Gli ungheresi si ribellarono alla dittatura filosovietica e all’occupazione militare nel 1956. La repressione della rivoluzione da parte dell’esercito russo costò più di duemila morti.

Fu un momento di crisi per il comunismo internazionale. Soltanto pochi mesi prima era stato reso pubblico una parte del testo del XX Congresso del Partito Comunista nel quale Nikita Chruščëv aveva denunciato – almeno in parte – gli orrori compiuti da Stalin e il suo “culto della personalità”. In molti, anche in Occidente, avevano pensato che quel discorso fosse un punto di svolta e un’apertura a maggiore democrazia e trasparenza da parte dei regimi sovietici. La rivoluzione ungherese, che molti etichettarono come una rivoluzione “borghese”, fu in realtà una rivolta di giovani comunisti che chiedevano un comunismo più umano e meno corrotto.

La repressione sovietica della rivoluzione portò molte persone – in tutta Europa – ad allontanarsi dal comunismo. In Italia il leader della CGIL Giuseppe Di Vittorio definì i sovietici «una banda di assassini». Diversi amici di Napolitano, tra cui Ghirelli e Patroni Griffi, si allontanarono definitivamente dal partito. La linea ufficiale invece rimase saldamente filosovietica. L’Unità, ad esempio, definì i rivoluzionari «teppisti» e «spregevoli provocatori». Lo stesso Napolitano rimase su questa linea e disse che «l’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo».

Dal riformismo al migliorismo
Nel 2006 Napolitano fece la sua prima visita ufficiale come Presidente della Repubblica a Budapest, la capitale dell’Ungheria, dove depose una corona di fiori sulla tomba di Imre Nagy, il presidente dell’Ungheria rivoluzionaria ucciso dai sovietici. Qualche anno dopo, nel 2009, parlando della sua storia all’interno del Partito Comunista, disse che era una storia «passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni».

Una parte fondamentale in queste evoluzioni e revisioni fu quella che ebbe il suo maestro, Giorgio Amendola, dirigente del PCI e figlio di Giovanni Amendola, un giornalista e deputato morto nel 1926 in seguito alle ferite subite in un pestaggio di un gruppo di fascisti. Napolitano si definì sempre un suo allievo. I giornali e i biografi li descrivevano – anche fisicamente – come due opposti: Amendola era un ex pugile, robusto e con una retorica fiammeggiante. Napolitano, alto e magro, dall’aria aristocratica e dal linguaggio – lo conosciamo tutti – più paludato.

La giornalista Miriam Mafai soprannominò Napolitano “Giorgio o’ sicco” (il magro) per distinguerlo da “Giorgio o’ chiatto” (il grasso), cioè Amendola. Napolitano si definì sempre un allievo di Amendola e fu al suo fianco in uno dei momenti di massimo conflitto tra le due ali del partito – i riformisti e l’ala sinistra – quando Amendola si scontrò nel 1966, durante l’XI congresso, contro Pietro Ingrao.

I cambiamenti, di Napolitano e del partito, furono evidenti nel 1968, quando l’esercito sovietico e dei suoi alleati intervennero per soffocare la Primavera di Praga e deporre il governo del “socialismo dal volto umano” di Alexander Dubcek. Fu proprio Giorgio Napolitano a incaricarsi di scrivere il comunicato con il quale il PCI criticò l’invasione.

Un altro cambiamento del PCI e della percezione che aveva, anche all’estero, la figura di Napolitano, avvenne con il suo viaggio negli Stati Uniti del 1978. Da alcuni documenti pubblicati da Wikileaks è emerso che un visto per un viaggio gli era stato negato, tre anni prima. Quando arrivò nel 1978 negli Stati Uniti, Napolitano fu il primo dirigente di un partito comunista a visitare gli Stati Uniti. L’accesso ai comunisti, infatti, era vietato da molti anni in seguito a un’interpretazione molto restrittiva di una legge del 1940, lo Smith Act.

Quando Amendola morì nel 1980 la sua eredità venne raccolta dalla corrente dei “miglioristi”, che per quasi tutta la sua storia fu capeggiata da Napolitano. Il “migliorismo” derivava il suo nome dall’idea che fosse possibile “migliorare” gradualmente il capitalismo, attraverso una serie di riforme da portare avanti con una partecipazione attiva al governo, piuttosto che tramite uno scontro aperto con le “forze capitalistiche” o, addirittura, tramite una rivoluzione. Si tratta di un termine dall’origine incerta che alcuni sostengono sia nato come dispregiativo nei confronti dell’ala destra del PCI già ai tempi dello scontro tra Amendola e Ingrao.

Lo scontro più celebre dell’epoca del “migliorismo” fu la drammatica lettera con cui, nel 1981, Napolitano criticò sull’Unità la guida di Berlinguer. Fino ad allora, gli scontri interni al PCI si erano quasi sempre consumati all’interno del partito, senza mai – o quasi – incrinare l’immagine di unità esterna. La critica, comunque, non era esplicita, ma nel linguaggio oscuro della Prima Repubblica era evidente che Napolitano criticava Berlinguer, accusandolo di “settarismo” e di “elitismo” a causa del suo famoso articolo in cui aveva parlato della «questione morale e l’orgogliosa riaffermazione della nostra diversità».

Poco tempo dopo quell’articolo, Napolitano venne accusato dalla dirigenza del partito di essere troppo vicino e «connivente» con il partito socialista di Bettino Craxi. Come scrisse Miriam Mafai: «Poche settimane dopo lascerà la responsabilità della sezione di organizzazione del partito per assumere l’incarico di presidente dei deputati comunisti. (Un incarico che allora, nel PCI veniva considerato assai meno importante di quello di responsabile dell’organizzazione). Ormai, Napolitano è indicato esplicitamente, nelle file comuniste, come un “destro”, un “riformista”».

Dalla fine del PCI alla presidenza della Repubblica
Tra il 1989 e il 1991 si svolse il lungo processo, cominciato con la cosidetta “Svolta della Bolognina”, che porterà, il 3 febbraio 1991, allo scioglimento del PCI. Per Napolitano furono anni in cui si distaccò sempre più dalla vita operativa del partito e divenne un “notabile” della Repubblica, cioè una figura lontana dai giochi politici e capace di assumere cariche importanti per cui era richiesta una certa imparzialità.

Nel 1992 venne eletto presidente della Camera – curiosamente, all’epoca, venne preferito rispetto a Stefano Rodotà, che l’anno scorso è stato votato dal Movimento 5 Stelle per la carica di Presidente della Repubblica. Come presidente della Camera negli anni di Tangentopoli venne considerato favorevole, anche se in maniera prudente e diplomatica, ai processi di “Mani Pulite”, e prese forti posizioni contro l’immunità parlamentare. Durante il primo governo Prodi divenne il primo ministro degli Interni proveniente dal PCI e la sua scelta venne motivata dalle sue doti di “equilibrio” e “grande senso istituzionale”.

Per le stesse qualità venne nominato nel 2005 senatore a vita, dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. L’anno dopo, con una maggioranza di centrosinistra, si votò il suo successore. Fu un’elezione con diversi tratti in comune con quella di questi giorni. All’epoca in molti chiesero a Ciampi di ricandidarsi, ma questi rifiutò. Circolò il nome di Franco Marini, come possibile candidato, quello di Emma Bonino e quello di Massimo D’Alema. Il centrosinistra votò scheda bianca per tutte le prime tre votazioni. Il centrodestra votò Gianni Letta alla prima votazione, per poi votare scheda bianca le altre tre.

Alla quarta votazione Napolitano conquisto 543 voti, diventando l’undicesimo Presidente della Repubblica Italiana. Concita de Gregorio raccontò su Repubblica il momento dell’elezione: «Otto minuti all’una, anche nella stanzetta al terzo piano di Palazzo Giustiniani parte l’applauso dei cinque amici seduti sui divani di broccato azzurro ma il Presidente fa cenno con le mani di aspettare. Calma, un momento. Squilla il suo cellulare, è Fassino che vuol fargli sentire in diretta l’applauso dell’aula: lui sorride, “grazie Piero”».