Perché è così difficile denunciare uno stupro

L'ha raccontato una corrispondente di guerra del Washington Post (una "dura"), che ne ha subito uno a 17 anni

di Abigail Hauslohner – Washington Post

An Indian student holds a cartoon during a march to mourn the death of a gang rape victim in Hyderabad, India, Friday, Jan. 4, 2013. Five men accused of raping the university student for hours on a bus as it drove through India's capital were charged with murder, rape and other crimes that could bring them the death penalty. The attack on the 23-year-old woman, who died of severe internal injuries over the weekend, provoked a fierce debate across India about the routine mistreatment of females and triggered daily protests demanding action. (Staffing/Mahesh Kumar A.)
An Indian student holds a cartoon during a march to mourn the death of a gang rape victim in Hyderabad, India, Friday, Jan. 4, 2013. Five men accused of raping the university student for hours on a bus as it drove through India's capital were charged with murder, rape and other crimes that could bring them the death penalty. The attack on the 23-year-old woman, who died of severe internal injuries over the weekend, provoked a fierce debate across India about the routine mistreatment of females and triggered daily protests demanding action. (Staffing/Mahesh Kumar A.)

Abigail Hauslohner è una giornalista americana di 31 anni. Dal 2007 si occupa di Medio Oriente, e nel 2012 è diventata capo dell’ufficio del Cairo del Washington Post. In questo articolo, Hauslohner racconta di avere subito una violenza sessuale a 17 anni e spiega i motivi per cui fu spinta a non denunciare il fatto.

Dal momento che sono il capo dell’ufficio del Cairo del Washington Post, il rischio della violenza sessuale è presente in molti dei posti che frequento. Mi occupo di guerre e crisi politiche in Medio Oriente da sette anni a questa parte, cinque dei quali li ho passati al Cairo, la capitale dell’Egitto, dove questo tipo di violenze è molto comune. Quando sono stata palpeggiata in mezzo a una folla di manifestanti fuori dalla moschea di al-Azhar, nel 2011, mi sono girata e ho dato a quel tizio un pugno in faccia.

I miei amici dicono che sono “una dura”. Eppure sono riuscita ad affrontare un fatto doloroso vecchio di quattordici anni solo dopo essere stata per tanto tempo in terapia. Avevo un disturbo post traumatico da stress. Mi sono rivolta a un terapeuta per cercare di fare pace con tutto quello a cui ho assistito in Medio Oriente da corrispondente di guerra: per contrastare la paura che mi prende di notte, nei sogni, e che aveva cominciato a produrre effetti sul mio lavoro. Volevo essere di nuovo in grado di reagire “normalmente” a un rumore improvviso. Non sentire un’esplosione ogni volta che veniva sbattuta una porta.

In terapia è successo spesso che finissi a parlare di una cosa che nulla ha a che fare con il Medio Oriente. Un’esperienza forse ancora più dolorosa dei periodi che ho passato a raccontare la guerra. Avevo 17 anni e fui violentata da un mio amico che andava all’università.

Fino alla diffusione di storie come le accuse contro Bill Cosby, o come il presunto stupro di gruppo alla University of Virginia, ho sempre evitato di leggere notizie sugli stupri. Ho anche evitato di scriverne, per quanto sia doloroso ammetterlo. Quando provai a scrivere sul problema della violenza sessuale in Egitto, due anni fa, sapevo che era una storia che meritava di essere raccontata. Desideravo pubblicarla. Ma non ci sono riuscita. La terapia mi ha aiutata a togliermi il peso della vergogna che ho portato fin da ragazza, e mi ha spinto a raccontarlo a distanza di quattordici anni. Come me, molte altre donne che hanno subito lo stupro riescono a raccontare la loro storia solo a distanza di decenni. Ho deciso che sarebbe stato il mio turno. Non dovrebbe esistere un limite temporale, per queste cose.

Quasi quattordici anni fa andai a trovare un mio amico, che chiamerò “X”, al campus della sua università. Consideravo X goffo ma protettivo, un po’ come un fratello maggiore: ci eravamo incontrati al liceo e avevamo un rapporto platonico di confidenza e intimità. Non l’ho mai trovato attraente. Quando X andò al college, riuscì a entrare in una confraternita. Mi disse che mi avrebbe portata a una vera festa per universitari. I miei genitori, che erano piuttosto severi, non mi avrebbero mai permesso di passare una notte in università da un ragazzo: ma X era un amico. Misi in valigia il mio vestito migliore – un maglione rosa acceso a collo alto, senza maniche – un paio di jeans Guess e una nuova collana che adoravo. La festa era organizzata dalla confraternita di X. Mi ricordo di essere entrata in una casa relativamente vuota, e di essermi seduta nervosamente su un divano. Cercai di darmi un tono, dato che nella stanza c’erano soprattutto maschi. X mi chiese se volessi qualcosa da bere; certo, risposi. Tornò indietro con un bicchierone di plastica riempito di punch rosso.

Del resto di quella serata ricordo solo qualche luce e qualche suono. Ricordo a malapena di essere stata portata in braccio su una macchina: non era l’auto di X, ed era guidata da una persona che non era X. Un attimo dopo mi sono svegliata nel letto della stanza di X: lui era sopra di me e aveva cominciato a baciarmi e a toccarmi. Mi sentivo pesante come il piombo, fusa con la superficie del letto. Mi sembrava di non avere il controllo del mio corpo, mentre X cercava di togliermi i jeans e la maglietta. La mia testa ciondolava a destra e a sinistra, ma il mio corpo ricadeva sempre a contatto con il letto. Mi ricordo di un dolore improvviso all’inguine, di aver detto “No” più forte che potevo, con la voce rauca e i polmoni pesanti. “No, no, no” dissi più volte. Ma non riuscivo a muovermi, nemmeno a stare seduta. A un certo punto, non sentii più dolore.

Non mi ricordo che ore fossero, quando mi svegliai la mattina dopo. La mia testa era come presa in una morsa, e mi vennero dei conati di vomito. Riuscii a fatica a sedermi sul letto: X era a fianco a me, dormiva. Avevo addosso una sua maglietta e nient’altro. Non ricordavo di averla indossata. Tutto l’edificio era silenzioso. Mi alzai in piedi. Per terra trovai la mia maglietta, i jeans, le mutande e il reggiseno. La mia collana si era rotta, le perline erano finite sul resto dei vestiti. C’era anche un preservativo. Indossai i jeans e trovai il bagno, dove vomitai violentemente sentendomi male come mai lo ero stata. Rimasi lì finché non mi svuotai completamente. Tornata nella stanza da letto, chiesi a X di portarmi a casa. Era un sabato grigio, nessuno dei due parlò durante il tragitto. Non l’ho mai più rivisto.

Nei due giorni successivi entrai in uno stato di negazione. La parola che cominciava con la “s” era lì, fluttuava nella mia testa come un incubo dopo che ci si è svegliati. Ma non riuscivo a pronunciarla ad alta voce. A quel tempo mi definivo orgogliosamente una ragazza “avanti”, mi consideravo una femminista. Sapevo quanto fossero comuni gli stupri occasionali. Credevo però di essere troppo intelligente per cascarci. Cose del genere accadevano a ragazze più fragili, stupide, banali – dicevo a me stessa. E io, invece, la sapevo lunga. Sapevo che alle feste non avrei dovuto accettare bicchieroni di plastica di cui non sapevo la provenienza. La verità è che non sapevo che anche un bravo ragazzo potesse essere uno stupratore. Non sapevo che una ragazza potesse essere stuprata da un suo amico (la maggior parte delle ragazze che vengono violentate da giovani – ora lo so – conosce il suo stupratore).

La settimana dopo che fui violentata, rimasi bloccata e depressa. Mia madre si era accorta che qualcosa non andava, ma io le dissi che era tutto a posto. Chiamai la mia migliore amica di allora, una comune amica mia e di X. Le dissi, esitando, che X aveva approfittato di me nella sua stanza da letto. Mi rispose: «sei sicura, Abby? Lui non farebbe mai una cosa del genere». Non feci più niente: non ne parlai né con i miei genitori né con un avvocato.

La maggior parte delle ragazze americane può non sapere come evitare una violenza di questo genere. La maggior parte di loro, comunque, sa benissimo cosa voglia dire essere esposta alle conseguenze di uno stupro. Dopo la denuncia, arriva il tribunale. Lì, la vita delle donne che hanno subito violenza viene sezionata, così come le loro relazioni e il loro modo di vestire. Mi ero immaginata tutto: il mio nome sui giornali, i miei amici, vicini, genitori e allenatori che si mettono contro di me. La mia vita sociale compromessa, il mio futuro distrutto.

Sapevo anche che per dimostrare uno stupro ci volevano delle prove. E io non ne avevo nessuna. Erano passati due giorni prima che ammisi a me stessa di essere stata stuprata: il tempo necessario per permettere a ogni traccia di sperma di sparire, e a X di buttare il preservativo e pulire la sua stanza. Riuscii a usare la parola “stupro” solo un anno più tardi, quando da matricola universitaria andai in depressione: cercai il sostegno di uno psicologo, che mi aiutò a capire che con tutta probabilità ero stata drogata. Negli anni, ho alternato fantasie giustizialiste – come scrivere con una bomboletta spray “STUPRATORE” sulla porta di casa dei suoi genitori – a tentativi di convincere me stessa che più passava il tempo e meno la cosa mi avrebbe condizionata. Non ci provo nemmeno a fargli causa: non ho prove, e lui probabilmente negherebbe tutto, come spesso accade nei casi di stupro.

In tutti questi anni, l’immagine che più spesso mi è venuta in mente riguardo a quell’episodio è quella di un telefono di emergenza nella sala comune del dormitorio che ho attraversato per andare in bagno, quella mattina. Nonostante la nausea e il mal di testa, sapevo bene a cosa serviva. Quella mattina mi ci fermai di fronte per un po’. Tutto quello che dovevo fare era alzare la cornetta, e la polizia sarebbe arrivata. Avrebbe trovato le prove nella stanza – il preservativo, i pezzi della mia collana preferita – e mi avrebbe sottoposto ad alcuni esami medici, che avrebbero rilevato le tracce della droga. Le cose sarebbero potute andare in maniera totalmente diversa.

Ma non l’alzai, la cornetta. Quel preciso istante mi perseguita ancora oggi. Si infila nei miei pensieri quando sono triste o depressa. Sta lì, alla base di sentimenti come rabbia, umiliazione, odio di me stessa e mancanza di fiducia che ha condizionato alcune delle mie relazioni personali e professionali. Perché non ho alzato la cornetta?

Il mio psicologo mi ha aiutato a riconoscere quella decisione come un prodotto della mia razionalità, e non come una dimostrazione di debolezza. Nonostante sapessi benissimo che lo stupro fosse un reato, l’ambiente in cui mi trovavo sembrava suggerirmi che sollevare un casino era una cattiva idea. Oggi, quello che mi spaventa di più riguardo la vicenda di Rolling Stone e del presunto stupro dalla University of Virginia, è che la prossima ragazza che subirà uno stupro potrebbe decidere di non denunciarlo. Anche nel caso lo facesse, la gente sarebbe portata a darle meno fiducia, e la sua tragedia finirebbe confusa fra le mille opinioni altrui sul suo caso.

Mi mortifica immaginare che ci siano altre donne, là fuori, che proprio in questi giorni hanno deciso di fare la scelta più “razionale”, come me. Cosa significa? Che quattordici anni più tardi, come dimostra una rapida ricerca su Google, il mio stupratore vive una vita normale. E che una nuova generazione di studenti universitari/stupratori la sta facendo franca.

©Washington Post

foto: AP Photo/Tsering Topgyal