Una proposta sulla questione della concorrenza sleale delle grandi aziende digitali

Il senatore Mucchetti vuole obbligare multinazionali come Apple, Amazon e Google a pagare le tasse che pagano le loro concorrenti italiane, con un'idea sulle carte di credito

È discusso in molti paesi, e anche in Italia, il tema della cosiddetta “evasione fiscale legale” che riguarda alcune grandi multinazionali che operano su internet: in estrema sintesi si tratta della contraddizione – generata dalle rivoluzioni digitali nel commercio e nei servizi online – tra il luogo dove le aziende hanno formalmente ma anche operativamente sede, e i luoghi dove vendono e consegnano i loro prodotti. Questa contraddizione fa sì che le suddette aziende operino e facciano ricavi evitando la tassazione dei paesi in cui operano e fanno ricavi: uno dei casi più noti è quello delle multinazionali digitali americane che hanno creato delle sedi in Irlanda dove ci sono incentivi fiscali altissimi, dalle quali però poi gestiscono business e commerci con clienti e operazione in altri paesi europei, dove non pagano le tasse pagate da business simili al loro. E questo è il nodo principale della questione, quello della presunta concorrenza sleale che si crea nei confronti di aziende locali che fanno lo stesso lavoro ma gravate da limiti fiscali più onerosi.

Del tema si parla molto da un po’ e spesso un’analisi lucida delle possibili soluzioni è appannata dagli interessi dei concorrenti: contro Google, Amazon o Apple (ma la questione riguarda anche Fiat, per esempio) vengono spesso confuse da parte dei media tradizionali le fondate accuse di concorrenza sleale con altre questioni più pretestuose, nel tentativo di competere con la loro frequente maggiore forza di innovazione e qualità del prodotto. Mentre per gli utenti e clienti la priorità è appunto una corretta concorrenza che permetta a ogni impresa di competere sul piano della qualità dell’offerta, senza handicap fiscali o privilegi nazionalistici. Su questo aspetto – quello esattamente fiscale – ha oggi presentato una sua proposta in un’intervista a Repubblica il senatore del PD Massimo Mucchetti. Proposta ardita e creativa, ma come spiega lui stesso volta a togliere il manico del coltello dalle mani delle aziende privilegiate dal sistema corrente.

Come evitano il Fisco gli assi del web?
«Sottraggono imponibile fatturando da paradisi fiscali beni e servizi dematerializzati ai clienti europei. La società emittente, basata in Irlanda o Lussemburgo, pagherebbe imposte modestissime. Ma arriva a non pagar nulla perché si carica di royalties da versare a una controllante, anch’essa off-shore, così da pareggiare i ricavi. Questi diritti di sfruttamento di brevetti o marchi sono esentasse se chi incassa finanzia spese in ricerca della casa madre, ovunque nel mondo. È un meccanismo che Google e Amazon ben conoscono».

In cosa consiste il suo emendamento?
«Oggi i colossi web possono dire che non fanno utili in Italia perché non vi hanno una “stabile organizzazione”. Il concetto di stabile organizzazione è il perno dei trattati Ocse contro la doppia imposizione fiscale. Un meccanismo ragionevole, ma nel nostro caso obsoleto perché legato al possesso di fabbriche e uffici quando, nel mondo web, il reddito prende altre forme».

Quindi vanno cambiati i trattati?
«Sì. Ma un conto è varare una commissione di studio, un altro è prendere decisioni incisive come base per negoziare con i governi sostenuti dalla lobby del web. Il Regno Unito ci prova. E noi? Perché non obbligo a banche e gestori di carte di credito, che eseguono pagamenti verso l`estero per beni e servizi dematerializzati, di trattenere un`imposta del 26% ove i beneficiari non dichiarino la stabile organizzazione in Italia?».

(leggi per intero sul sito del Partito Democratico)