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  • Venerdì 12 dicembre 2014

Le ultime foto di Michel du Cille

Un grande fotografo del Washington Post, tre volte premio Pulitzer, è morto d'infarto mentre si trovava in Liberia per documentare l'epidemia di ebola

Michel du Cille, fotogiornalista del Washington Post premiato tre volte con il Pulitzer per i suoi reportage fotografici, è morto probabilmente a causa di un infarto mentre si trovava in Liberia per documentare l’epidemia di ebola nel paese per conto del giornale statunitense. Aveva 58 anni ed è collassato mentre stava tornando a piedi da un villaggio nel distretto di Salala, dove stava lavorando a uno dei suoi progetti fotografici. È stato trasportato d’urgenza – compatibilmente alle strade e alle disponibilità di mezzi – in un ospedale distante due ore di viaggio, ma quando è arrivato i medici lo hanno dichiarato morto.

Da quando è iniziata l’epidemia di ebola nell’Africa occidentale alla fine del 2013, du Cille aveva viaggiato spesso in Liberia per mostrare con le sue fotografie le condizioni in cui vivono migliaia di persone sotto il costante rischio di essere contagiate dal virus, che nel paese ha già ucciso più di 3.200 persone secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. I suoi lavori erano stati pubblicati sul sito del Washington Post e da altre testate, contribuendo a fare aumentare l’attenzione sull’emergenza sanitaria in Liberia.

Michelangelo Edvard du Cille era nato il 24 gennaio del 1956 a Kingston in Giamaica. La famiglia si trasferì in Georgia, negli Stati Uniti, nei primi anni Settanta e fu intorno ai 16 anni che du Cille iniziò ad appassionarsi alla fotografia. Nel 1981 si laureò presso l’Indiana University, dopo avere fatto un paio di stage presso il Louisville Courier-Journal e il Miami Herald.

Du Cille ottene i primi grandi successi negli anni Ottanta, quando per due volte gli fu attribuito il premio Pulitzer per alcuni reportage realizzati per conto del Miami Herald, il giornale con cui collaborava. Il primo Pulitzer fu nel 1985 per le fotografie che documentavano una spettacolare eruzione in Colombia, mentre il secondo premio arrivò nel 1987 per un suo reportage fotografico su una comunità di tossicodipendenti di Miami.

Nel 1988 fu assunto dal Washington Post e nel 2008 ottenne un terzo Pulitzer, insieme con altre due colleghe, per un lavoro fotografico sulle condizioni dei reduci di guerra ospitati presso il Walter Reed Army Medical Center, chiuso poi tre anni dopo. Per diverso tempo du Cille lavorò come responsabile della redazione fotografica del Washington Post; in seguito decise di tornare a lavorare sul campo come fotoreporter, la cosa che più lo interessava.

Tra gli anni Novanta e i primi anni del Duemila, du Cille seguì diverse crisi dal Sudan all’Afghanistan, dove nel 2013 rischiò molto quando si trovò in mezzo a una sparatoria. Si occupò anche delle guerre civili in Sierra Leone e Liberia, paese che conosceva piuttosto bene e al quale in un certo senso era ormai affezionato. Tornò in Liberia quest’anno per documentare la grave epidemia di ebola, spostandosi tra diversi villaggi e facendo base a Monrovia, la capitale del paese africano.

In Liberia du Cille utilizzava uno scafandro e guanti di gomma per proteggersi dal contagio avendo al tempo stesso la possibilità di avvicinarsi ai malati, e di circolare nei centri medici con i pazienti affetti da ebola per documentare le loro condizioni. Realizzava ritratti commoventi anche dei pazienti sopravvissuti all’infezione e nuovamente liberi di abbracciare i loro parenti, dopo settimane di isolamento per evitare contagi.

Nel suo bell’articolo dello scorso ottobre, l’inviato del Washington Post in Liberia Lenny Bernstein raccontò efficacemente du Cille e il suo modo di lavorare:

Du Cille non si comportava alla mia stessa maniera. Nonostante si lavasse le mani col cloro tanto spesso quanto me, aveva perso da tempo l’istinto umano di autoconservazione: probabilmente era accaduto quando aveva passato sette mesi a fare foto in posti dove si commerciava droga – o dove era costretto a schivare pallottole – in Afghanistan. In Liberia, è entrato in un ex ospedale di Monrovia che fungeva da centro di trasferimento per i malati e i morti della città, dove i corpi invadevano il pavimento. Questo ha richiesto che si attrezzasse coprendo ogni centimetro della propria pelle con un “kit per la protezione personale”, quelle specie di tute da astronauta che sono diventate un simbolo dell’epidemia. Indossarla e poi togliersela di dosso è un processo lungo e complicato. Un solo errore nella procedura, e rischi che il virus venga a contatto con la pelle. Mi sono rifiutato di andare in qualsiasi posto dove fosse richiesto di indossarlo. Du Cille aveva un’attrazione per i morti simile a quella di una falena per la luce. Il corpo di una persona morta sotto a dei panni stesi ad asciugare è un’immagine forte. Io però non volevo averci nulla a che fare.

Du Cille era sposato da cinque anni con Nikki Kahn, una fotografa che lavora per conto del Washington Post. In precedenza era stato sposato per alcuni anni con Christine Clarke, dalla quale ebbe due figli.