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  • Giovedì 4 dicembre 2014

La rehab dei jihadisti

La Danimarca sta sviluppando un sistema innovativo per trattare con quelli che tornano in patria dopo avere combattuto in Siria: e sembra funzionare

This picture taken on November 14, 2014 shows Oussama el-Saadi, chairman of the mosque at Grimhojvej, outside of Aarhus. Denmark's jihadist rehab: homework, football and Islam Denmark has set up special centres offering rehabilitation for would-be Syria fighters as well as those returning, but some claim the programmes trivialise extremism and want to see more prosecutions. AFP PHOTO / Bjorn Lindgren (Photo credit should read BJORN LINDGREN/AFP/Getty Images)
This picture taken on November 14, 2014 shows Oussama el-Saadi, chairman of the mosque at Grimhojvej, outside of Aarhus. Denmark's jihadist rehab: homework, football and Islam Denmark has set up special centres offering rehabilitation for would-be Syria fighters as well as those returning, but some claim the programmes trivialise extremism and want to see more prosecutions. AFP PHOTO / Bjorn Lindgren (Photo credit should read BJORN LINDGREN/AFP/Getty Images)

Da alcuni mesi la guerra contro lo Stato Islamico in Siria e Iraq viene spesso associata da diversi paesi europei a un grosso problema di sicurezza interna. Centinaia di miliziani dell’IS provengono infatti da Belgio, Regno Unito, Germania, Francia e paesi del nord Europa (anche da Italia e Spagna, ma in numero minore): molti governi credono che, una volta rientrati in patria, questi combattenti possano compiere attentati. In realtà il fenomeno non riguarda solo lo Stato Islamico ma anche diversi dei tantissimi gruppi che in Siria combattono contro il regime del presidente Bashar al Assad. Diverse polizie nazionali hanno cominciato a usare un approccio piuttosto duro nei confronti dei sospetti terroristi. Non la Danimarca, però, che ha progettato invece un sistema di riabilitazione per quelli che tornano dopo avere combattuto in Siria – spesso di tratta di jihadisti – e non un più tradizionale sistema punitivo.

Secondo la legge danese chiunque ritorni dalla Siria dovrebbe sottoporsi a una serie di controlli piuttosto stringenti da parte della polizia. L’obiettivo è capire se quella persona ha commesso o meno dei reati in Danimarca: su cosa si possa considerare un atto criminale rilevante c’è però parecchia confusione, e le cose alla fine non vanno sempre come previsto dalla legge. Di certo c’è che la Danimarca è uno dei paesi da cui parte il maggior numero di persone per la Siria in confronto alla popolazione nazionale. Il modello di riabilitazione si basa fondamentalmente sul dialogo. Viene applicato come forma di prevenzione – spingendo gli imam delle moschee a prendere posizione contro il fondamentalismo – e prevede diverse misure successive al ritorno in patria: per esempio offre un’assistenza medica per le ferite da arma da fuoco, un appoggio psicologico per superare i traumi della guerra e un aiuto nella ricerca di un nuovo lavoro. Favorisce anche i contatti tra chi è già in Siria a combattere e le famiglie rimaste in Danimarca (spesso via Skype) facilitando il ritorno in patria.

Il sistema di riabilitazione è stato sperimentato per la prima volta ad Aarhus, la seconda città più popolosa della Danimarca. Poi il governo lo ha esteso su tutto il territorio nazionale. Aarhus è coinvolta direttamente nel reclutamento di potenziali jihadisti: circa il 30 per cento dei volontari che vanno a combattere in Siria contro Assad proviene da qui. In molti hanno individuato una moschea nel quartiere di Grimhojvej come il centro del reclutamento, vista la reticenza dei suoi leader nel condannare apertamente il fondamentalismo e i gruppi più estremisti che combattono in Siria, come lo Stato Islamico. Il professore Preben Bertelsen, uno degli architetti del sistema di riabilitazione dei jihadisti, ha spiegato al quotidiano britannico Independent i risultati di questo approccio:

«Da quando è iniziato, questo gennaio, le partenze da Aarhus verso la Siria si sono bloccate. I leader della moschea hanno capito che hanno delle responsabilità. Per coloro che sono entrati nel programma, non chiediamo che smettano di praticare la loro religione o che cambino le loro idee politiche: dopotutto viviamo in una democrazia. Quello che stiamo chiedendo è che non usino la violenza»

L’Independent ha raccontato la storia di Mehdi, cittadino danese di origine nordafricana. Mehdi, 25 anni, è tornato nel suo paese dopo avere combattuto in Siria per nove mesi contro il regime siriano di Assad. È tornato, ha raccontato all’Independent, perché è rimasto deluso dalle lotte interne nel fronte dei ribelli. Mehdi faceva parte di un battaglione in cui “nessuno era fanatico riguardo il jihad siriano”: possedeva una pistola ma la sua occupazione principale era gestire i magazzini contenenti le provviste. Mehdi è stato per un certo periodo ad Aleppo, in un distretto controllato dal Fronte al Nusra, i rappresentanti di al Qaida in Siria. Ha detto:

«Non ho mai voluto uccidere delle persone qui [in Danimarca, ndr]. Sono andato in un altro paese per aiutare quelli che vengono uccisi e bombardati da Assad, un uomo crudele. Certo, se mi avessero messo in prigione quando sono tornato in Danimarca, se mi avessero trattato come un nemico, forse avrei fatto qualcosa come ritorsione»

Ora il professore Preben Bertelsen ha in programma una serie di viaggi in altri paesi europei – tra cui Norvegia, Belgio e Germania – per spiegare il modello della riabilitazione danese, molto diverso rispetto ai sistemi punitivi usati soprattutto nel Regno Unito, dove chi torna dopo avere combattuto in Siria finisce spesso per essere arrestato e incriminato per terrorismo. Come ha spiegato ad al Jazeera Mehdi Mozaffari, esperto di islamismo ed estremismo dell’Università di Aarhus, parte del programma è iniziato prima dell’ascesa militare dello Stato Islamico in Siria, quando ancora il gruppo dominante era il Fronte al Nusra. Il fatto che l’IS si sia mostrato così estremista e violento, ha detto Mozaffari, ha spinto i leader delle moschee danesi a prenderne le distanze. Mozaffari ha aggiunto che quello che servirebbe ora sarebbe una strategia coerente e ampia che riguardi tutti i paesi dell’Unione Europea.

Nella foto: Oussama el-Saadi, capo della moschea di Grimhojvej, ad Aarhus, 14 novembre 2014 (BJORN LINDGREN/AFP/Getty Images)