“Ma a cosa mi serve la matematica?”

Un professore americano risponde alla domanda che tutti i professori di matematica si sentono fare ogni anno (e non solo quelli di matematica)

di Douglas Corey - Docente di matematica presso la Brigham Young University, Provo, Utah (Stati Uniti)

La domanda più frequente durante le lezioni di matematica è sempre, più o meno: “A cosa mi serve sapere queste cose?”. Ho cominciato a inserirla su un motore di ricerca, e tutti i suggerimenti del completamento automatico riguardavano la matematica che si insegna a scuola. Mettendomi nei panni di uno studente, devo dire che si tratta di una domanda piuttosto valida. Certo, alcuni studenti la fanno per provocare il loro insegnante, sottintendendo un “Dimostrami che avrò bisogno di questa cosa nella mia vita”. Ma alcuni allievi la fanno sinceramente, perché vogliono sapere in quali occasioni quella nozione matematica potrà essere usata nel loro futuro.

In entrambi i casi gli insegnanti di solito fanno una delle cose che seguono. Uno, danno un qualche tipo di risposta rituale su come quella nozione servirà per il compito in classe della settimana successiva, o per qualche verifica nelle classi degli anni seguenti. Niente di così convincente. Due, se la cavano rapidamente rispondendo che “se non la sai, non potrai mai usarla” o qualcosa di simile che, anche se vero, non è molto più soddisfacente della prima. Tre – che tradizionalmente è la cosa che meglio può fare un insegnante in questa situazione – provano a dare agli studenti la risposta che si aspettano. La nozione matematica viene quindi legata a qualche ambito specifico di applicazione, oppure riconducono la nozione a qualcosa che possa interessare gli studenti o che possa per lo meno giustificare il suo insegnamento. Se vi è capitato di sentire una risposta simile quando eravate a scuola, sapete che si tratta di un modo di rispondere alla domanda che raramente dà qualche soddisfazione.

Siamo infatti davanti a una sorta di paradosso sul quale mi sono applicato molto: la matematica è certamente utile, eppure perché è così difficile dimostrare agli studenti quanto possa essere utile per loro? In questo breve saggio provo ad analizzare il paradosso, e do la mia risposta alla suddetta classica domanda: “Quando mai mi servirà sapere questa cosa?”.

Per cominciare, proviamo a fare un esperimento. Prendetevi un momento e pensate all’ultima volta che avete utilizzato una moltiplicazione per fare qualcosa al di fuori del contesto scolastico. Potrebbe essere difficile, ma provate a ricordare. Se non riuscite proprio a ricordarvi l’ultima volta, provate a ripensare a un momento in passato in cui avete usato la moltiplicazione. Pensa… pensa… pensa… Avete trovato qualcosa? Non deve trattarsi necessariamente di un momento in cui avete materialmente scritto su un pezzo di carta una moltiplicazione. Potreste averlo fatto a mente o utilizzando una calcolatrice. Se siete come me, probabilmente state faticando a ricordare una situazione specifica. Ho avuto molte difficoltà a ricordarmi un momento preciso, nonostante io ricorra di continuo alle moltiplicazioni. Sono qualcosa talmente insito nel mio modo di pensare che non ci faccio caso, almeno di solito. E scommetto che vale la stessa cosa per la maggior parte di voi. Sono certo che voi usate l’idea della moltiplicazione insieme con tutti i suoi cugini più stretti per calcolare un’area, contare cose, ingrandirle o lavorare con le proporzioni. È diventata una parte talmente naturale del vostro modo di pensare da non farci più caso, e non ci diciamo nemmeno: “OK, questo è un problema che riguarda le moltiplicazioni. Com’è che mi avevano insegnato a farlo a scuola?”.

Questo potrebbe essere il primo pezzo per capire questo paradosso. La matematica è utile, ma la maggior parte del suo uso è mentale e inconsapevole. Quando guardate un grafico, un numero, una formula, uno schema, un algoritmo, o qualcosa di simile, state costruendo una miriade di collegamenti matematici assunti durante le molte ore trascorse in classe a studiare matematica e a fare i compiti a casa (e in altre situazioni) per trovare un senso (o iniziare a crearne uno) a ciò di cui state facendo esperienza (vedere, leggere e così via). Di rado si riesce ad andare indietro e a capire quando si sono apprese le abilità, anche solo una, che permettono di dare un senso a qualcosa. È praticamente impossibile identificare con precisione il momento in cui si è imparato a fare una specifica cosa, specialmente per ciò che permette di creare quello schema che usiamo per dare senso al mondo che abbiamo intorno. La conseguenza è che spesso si finisce per non riconoscere l’importanza degli insegnanti che hanno aiutato gli studenti a imparare qualcosa, semplicemente perché trovare la fonte puntuale di una determinata conoscenza diventa quasi impossibile.

Ma torniamo al nostro esperimento. Spero che a questo punto abbiate ricordato una situazione in cui avete fatto ricorso alla moltiplicazione. Quando ho fatto per la prima volta questa prova, ho pensato a due esempi. Avevo usato la moltiplicazione per calcolare l’area di un piccolo appezzamento di terra sul retro della mia casa su cui volevo piantare dei lamponi, in modo da poter confrontare il dato con alcune informazioni trovate online. E ho usato la moltiplicazione per verificare se avessi preso un numero sufficiente di scatole di zuppa di funghi al supermercato: avevo bisogno di 24 latte, quindi le ho disposte in una matrice di quattro per sei.

Ieri ho fatto la stessa domanda a un paio di persone. Le due situazioni che hanno citato erano: verificare se una scatola di pannolini fosse sufficiente per un mese intero e vedere se un giocatore di baseball potesse finire la stagione con 100 punti battuti a casa, posto che mantenesse il ritmo attuale di punti ottenuti. La situazione cui avete pensato voi potrebbe essere più o meno caratteristica come quelle che ho elencato.

Ora, supponiamo quindi che un giovane studente ci chieda: “Quando mai userò la moltiplicazione?”. E poniamo che la nostra risposta sia costituita da uno o forse più degli esempi fatti fino a ora per giustificare la richiesta di imparare cose sulla moltiplicazione. La conversazione potrebbe andare più o meno così:

– Studente: Quando mai userò la moltiplicazione?
– Insegnante: L’ho usata proprio l’altro giorno per calcolare l’area in cui piantare dei lamponi.
– Studente: Già, certo, mi capiterà sicuramente di dover piantare dei lamponi nella mia vita.
– Insegnante: Beh, un amico ieri mi ha detto che ha usato la moltiplicazione per farsi un’idea sul suo giocatore di baseball preferito e sul fatto se potesse finire la stagione con 100 punti battuti a casa.
Studente: Che diavolo vuol dire battuti a casa? Non mi piace nemmeno, il baseball.
Insegnante: Puoi usare le moltiplicazioni quando fai acquisti. Potresti usarle per capire se un pacco di pannolini sarà sufficiente fino a quando non avrai incassato un nuovo stipendio.
Studente: Pannolini? Parla sul serio? Se avere figli significa dovere usare la matematica, non avrò mai bambini.
Insegnante: (sospirando) Lo sapevo, dovevo fare il medico.

OK, sull’ultima frase ho scherzato, ma potete rendervi conto di quanto possa essere frustrante provare a convincere uno studente con una tecnica simile e, ricordate, stiamo parlando di un’operazione matematica che viene usata ogni giorno e di continuo dalle persone. Il vostro esempio probabilmente era anche migliore del mio, ma dubito che avrebbe comunque dato la motivazione necessaria a un allievo delle medie per mettersi a capofitto a fare i suoi compiti.

Decisamente non è questo il modo per convincere gli studenti sull’utilità della matematica. Aggiungerei che gli esempi applicativi che si fanno a scuola riescono molto di più a convincere gli studenti dell’inutilità della matematica piuttosto che il contrario. Me ne sono reso conto insegnando algebra al college. Facevo quello che consideravo un lavoro ragionevole insegnando un argomento, e poi ne davo una dimostrazione con alcuni esempi applicativi che ritenevo interessanti. Gli studenti sembravano seguirmi nella prima parte, ma quando iniziavo a fare esempi pratici avevano la faccia di chi sta pensando: “Beh, sembrava che potesse essere un argomento interessante, ma se si tratta di usarlo in questi contesti (biologia, psicologia, storia, fisica e così via) so già che non mi servirà mai!”. Qualsiasi esempio applicativo scelto da un insegnante sarà con ogni probabilità fuori da qualsiasi interesse dei suoi studenti, e fornirà quindi una prova in più sul fatto che non utilizzeranno mai quella nozione matematica.

Io lo chiamo il paradosso dell’esempio applicativo. Ed è la seconda cosa che si può desumere dal paradosso più grande che stiamo provando a capire: gli esempi pratici interessano spesso contesti talmente specifici da non sfiorare la realtà con cui si confronta la maggior parte degli studenti.

E questo mette all’angolo gli insegnanti di matematica. Fare l’opposto – cioè non usare esempi applicativi – è una strategia ancora peggiore per convincere gli studenti sull’utilità della matematica. Gli insegnanti sono costretti a fare un duro lavoro di ricerca di un esempio applicativo che sia generico e coinvolgente a sufficienza in modo da coinvolgere gli studenti. Se non pensate che sia difficile, provate a saltarvene fuori con un esempio applicativo per un argomento comune (come risolvere le equazioni lineari) in grado di convincere gli studenti sul fatto che sia fico e che meriti di essere studiato.

Unire i puntini
In verità, la domanda sul quando-userò-questa-cosa è sleale nei confronti dell’insegnante: lui non lo sa quando sarà usata. Potrebbe spiegare come altre persone l’hanno usata, ma come abbiamo visto in precedenza non arriverebbe a qualcosa di convincente. La difficoltà nel rispondere a questa domanda risiede in un’assunzione implicita che fa parte della stessa domanda. Lo studente ha una certa idea delle situazioni a cui andrà incontro nella propria vita, e quando la risposta da parte dell’insegnante non si applica a nessuna di queste situazioni, la matematica sembra essere inutile. Ma è disonesto assumere di sapere – mentre facciamo una considerazione in un dato momento – le situazioni in cui potremmo avere la necessità di usare qualcosa. Perché? Perché di norma ciò che non sappiamo, non lo sappiamo.

Prendere in considerazione l’apprendimento dal punto di vista del NON-SO-ciò-che-non-so è una buona cosa per certi ambiti di conoscenza. In certi lavori manuali, per esempio. Se vuoi aggiustare un condizionatore, allora sì che le cose che impari in un corso su “come aggiustare un condizionatore” ti sembrano pertinenti. Lì puoi immaginarti mentre stacchi un pannello di un condizionatore per guardare i suoi componenti, e quelli ricordano molto le immagini che hai visto nel libro di testo. Sai di non sapere come diagnosticare e come mettere a posto quei componenti all’interno del condizionatore (e, inoltre, vorresti imparare a farlo).

Ma queste situazioni sono molto poche se confrontate con tutte le altre in cui potremmo usare le nostre conoscenze. In molti casi, non sappiamo le cose che non sappiamo. Questo rende molto difficile capire di quali conoscenze avremo bisogno in un futuro distante. Rende inoltre molto difficile vedere come potremmo usare le conoscenze che non abbiamo. Qui di seguito ci sono alcune storie che aiutano a capire questo punto.

Questo è un passaggio del discorso di Steve Jobs alla Stanford University.

Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l’ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita. Così decisi di mollare e di avere fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. Era molto difficile all’epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia. Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi obbligatori che non mi interessavano e cominciai invece a frequentare solo quelli che trovavo più interessanti.

Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l’unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Vi faccio subito un esempio.

Il Reed College all’epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le ‘grazie’, capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.

Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un’applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. È stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all’epoca in cui ero al college era impossibile per me ‘unire i puntini’ guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all’indietro.

Insomma, non è possibile ‘unire i puntini’ guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all’indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.

Un mio collega ha partecipato a un incontro nazionale aperto ai docenti di tecnica: quelli che insegnano nei corsi di ebanisteria, autoriparazioni, saldatura, produzione multimediale, animazioni al computer, e compagnia. Quello che tenne la conferenza introduttiva era un medico inventore di un polmone artificiale. Durante il suo intervento, disse agli insegnanti una cosa che non aveva mai detto prima pubblicamente: raccontò l’esperienza più importante che gli permise di sviluppare il polmone artificiale. Gli insegnanti ascoltarono entusiasti mentre spiegava come tutto fosse iniziato il giorno in cui a 16 anni si era messo a restaurare una vecchia automobile. Facendolo, imparò come funzionano i componenti di un’auto e cosa fanno insieme. Il polmone artificiale, aggiunse, non è altro che un estroso radiatore.

Ciò che trovo più interessante in questa storia è che se ciascuno di noi avesse davanti il problema di capire come inventarsi un polmone artificiale non penserebbe: “So che cosa devo fare: devo restaurare una vecchia automobile!”. Ugualmente, se foste stati voi insieme con il cofondatore di Apple Steve Wozniak in un garage a costruire un computer non vi sareste girati verso di lui dicendogli: “Steve, penso che una cosa di cui abbiamo davvero bisogno sia che uno di noi due segua un corso di calligrafia. Questo sì che ci aiuterebbe a rendere unici i nostri computer”. Non puoi collegare i puntini guardando in avanti, o, in altre parole, non sai ciò che ancora non sai (di solito).

Ciò che impariamo, cioè che davvero impariamo e capiamo, condiziona le nostre vite in modi che non riusciamo a comprendere pienamente. Tutte le nostre conoscenze acquisite, le esperienze che abbiamo fatto, e i nostri ragionamenti passati condizionano ciò che pensiamo ora. Prendete per esempio in considerazione questa cosa detta dall’insegnante S. W. Kimball, che concorda con un principio importante della moderna scienza cognitiva: “Ogni pensiero che ognuno di noi fa passare attraverso la sua mente lascia una traccia. I pensieri sono cose. Le nostre vite sono in gran parte governate dai nostri pensieri”.

E che cos’è l’apprendimento se non il processo che plasma progressivamente la nostra mente, il nostro cuore, le nostre mani attraverso i pensieri e le esperienze che lasciano un segno e che ci rendono qualcosa di migliore e con più capacità rispetto a ciò che eravamo prima?

L’occhio della mente
Anche se ciò accade in molti modi, la nostra attuale conoscenza può condizionarci attraverso ciò che siamo in grado di “vedere”. Ciò che riusciamo a “vedere”, i modi in cui capiamo si possano affrontare le cose, ha effetti estremamente rilevanti nella nostra esperienza di vita.

L’amico di un mio collega era un professore di matematica e aveva un acquario con i pesci tropicali. L’acquario doveva essere mantenuto a una certa temperatura per fare in modo che i pesci sopravvivessero: quindi c’era una lampadina speciale per scaldare l’acqua. La lampadina a un certo punto si fulminò, e il professore fu costretto a recarsi in una città vicina per comprarne una nuova. Durante il viaggio in auto di un quarto d’ora circa, pensò a un’equazione differenziale basata sulle dimensioni del suo acquario per calcolare la quantità di watt necessari per mantenere l’acqua alla corretta temperatura. Risolse l’equazione differenziale in tempo per quando arrivò al negozio e fece il giusto acquisto. Io non sarei stato in grado di fare qualcosa di simile, e probabilmente nemmeno voi. Ma se è per questo non avevamo nemmeno conoscenze matematiche sufficienti per sapere che si potesse affrontare la questione in questo modo. Molti di noi non avrebbero visto il problema dal punto di vista matematico.

Conosco un medico che ha una grande preparazione matematica. Non ha seguito corsi particolari al college, solo un paio di analisi matematica, ma ha compreso bene la materia. Dice che nella pratica medica di tutti i giorni utilizza i limiti, le derivate e gli integrali per la sua professione. Li utilizza per trovare un senso nelle cartelle cliniche dei pazienti, per valutare la concentrazione dei medicinali nel sangue e in molte altre cose con cui deve confrontarsi ogni giorno. Usa queste idee in modi diversi a seconda dei giorni e delle esigenze, ma giorno dopo giorno si presentano nuove situazioni in cui le utilizza per capire che cosa sta succedendo e per stabilire diagnosi e terapie. Questi concetti legati all’analisi matematica sono preziosi per il suo lavoro. E non è una cosa che capita solo a questo medico. Ne ho conosciuto un altro con una solida preparazione matematica, e mi ha detto cose simili.

I medici che non hanno dimestichezza con questo tipo di idee non utilizzano questi validi strumenti. Non sono in grado di sfruttarli, perché non capiscono che uso farne. Eppure, secondo un mio amico medico, molti suoi colleghi pensano che frequentare lezioni di analisi matematica fosse una perdita di tempo. Quando prova a spiegare loro che usando l’analisi potrebbero superare alcuni dei problemi che incontrano al lavoro, non gli credono perché non capiscono come la matematica possa aiutarli.

La faccenda del riuscire a “vedere” le cose non è limitata al vedere i problemi da un punto di vista matematico. Quello che gli allenatori di basket vedono durante una partita è molto diverso da ciò vedono i tifosi: guardano alle cose che fanno capire perché una partita stia funzionando o meno, quale giocatore ha dato i migliori apporti tecnici alla squadra, e chi sta giocando al di sopra o al di sotto delle aspettative. Persino la mia scarsa conoscenza del basket mi ha permesso di avere qualche intuizione interessante, come vedere un allenatore che esulta per un giocatore che sta attaccando in contropiede due contro uno, anche se non tocca la palla durante l’azione di gioco. Semplicemente corre fino in fondo al campo. Nessuno gli passa la palla e nessun difensore lo tocca. Il suo compagno di squadra con la palla supera in uno contro uno il difensore, e fa un tiro da sotto, facile.

La spiegazione dell’allenatore? Il mio giocatore non sarebbe stato veloce abbastanza per battere uno contro uno il suo difensore. In quell’azione avrebbe provato un tiro difficile, un tiro da fuori o avrebbe rinunciato. Ma a queste condizioni io preferisco sempre un tiro da sotto. E con l’altro giocatore vicino questo è possibile: il difensore si trova in una situazione difficile. Non può limitarsi a fermare la mia ala, perché concederebbe un passaggio e un tiro facile. Il secondo giocatore è ancora più importante in questa azione.

Certo, i tifosi non lo vedono. Vedono solo il primo giocatore fare una buona azione sul difensore (ma solo nel momento in cui il difensore è stato messo in una difficile posizione dal movimento del giocatore numero due) e andare a tirare facile da sotto. Nessuno pensa al giocatore che ha permesso che l’azione diventasse un due contro uno.

Quando uno dei miei figli infila una maglietta al contrario, penso al gruppo delle simmetrie che si generano a seconda di cosa fa con quella maglietta. Penso alla risoluzione di sistemi di equazioni e alla programmazione lineare quando consulto le informazioni nutrizionali sui pacchetti degli alimenti. Quando gioco sul tappeto elastico con i miei figli, e saltiamo con qualche pallone, penso come funzionano le traiettorie dei palloni usando la geometria iperbolica e di come questo modello sia anche usato nella teoria generale della relatività per descrivere le traiettorie della luce attraverso lunghe distanze.

Ma è un mio chiodo fisso. Le persone normali non se ne stanno sul tappeto elastico chiedendosi quali legami possano esserci con la geometria iperbolica. Quando vedono una palla che rotola su un tappeto non si chiedono se possa avere in qualche modo a che fare con il modo in cui la luce viaggia attraverso l’universo. Di solito non pensano a calcoli algebrici quando vedono una maglietta indossata al contrario. Non vedono questo tipo di legami, quindi i legami stessi non esistono. E infatti, queste sono le stesse persone che sostengono che la matematica avanzata non ha nulla a che vedere con la vita reale. Beh, in un certo senso hanno ragione: per loro non c’è nessun collegamento perché non hanno nozioni a sufficienza su questi collegamenti.

Alcune delle persone che più hanno avuto successi nella vita hanno lavorato sodo, ma hanno anche impegnato il tempo a imparare cose. Larry H. Miller era un multimilionario che gestiva alcune concessionarie di automobili nello Utah, ma è diventato soprattutto noto per essere stato il proprietario della squadra degli Utah Jazz. Durante una sua intervista radiofonica sei anni fa, mentre l’economia era mal messa, iniziò a raccontare cose sugli Stati Uniti ai tempi della Guerra d’indipendenza per mettere la crisi economica in prospettiva rispetto al resto. Fu abbastanza sorprendente sentirlo dire dal proprietario di una squadra di basket, ma dimostra due cose. Primo, che Miller aveva una buona preparazione su diversi argomenti. Secondo, che grazie a questa era in grado di analizzare e comprendere una situazione attuale sotto una diversa prospettiva rispetto a molta gente. La vedeva in modo diverso grazie alle conoscenze che aveva acquisito.

Cercalo e basta
Questo punto riguarda un altro commento (di solito una lamentela) che si sente spesso in classe. Gli insegnanti di matematica (come tutti gli altri docenti) chiedono ai loro studenti di imparare a memoria molte cose: formule, definizioni, teoremi, dimostrazioni e compagnia. La risposta che gli studenti danno di solito è che si tratta di una perdita di tempo perché possono sempre cercare quelle cose, quando ne hanno bisogno. Beh, certamente possono farlo. Non lo discuto. Il problema è che ti metti a cercare cose che sai di non conoscere: senza contare che, per farlo, in pratica hai bisogno di conoscere una cosa che non sai. Ed è qui che sorge il problema: devi conoscere l’argomento bene o a sufficienza da sapere quando potresti avere bisogno di cercarlo. Senza quella conoscenza, non saprai che esistono una formula, una dimostrazione, una strategia, un risultato, un’analisi e così via, che ti possono aiutare.

Questo porta rapidamente a una fallacia: non hai bisogno di imparare cose che puoi cercare da qualche parte; ma ora qualsiasi cosa può essere cercata online o in una biblioteca come quelle universitarie; di conseguenza uno si convince del fatto che non ci sia la necessità di imparare nulla. Ma se così fosse, che cosa ne sarebbe della conoscenza che ci aiuta a creare pensieri ogni giorno? Possiamo pensare solo con le idee che già si sono formate nella nostra mente. È questo il modo in cui troviamo un senso a ciò che ci accade. Con queste idee conservate solo nei libri, sui siti, nei video e così via non possiamo pensare a qualcosa: non fino a quando non le abbiamo assimilate e rese una parte di noi.

Eccovi un esperimento. Prendetevi qualche minuto per memorizzare una citazione. C’è n’è una di Thomas Edison che mi è sempre piaciuta molto: “Spesso perdiamo un’opportunità perché la scambiamo per lavoro”. Memorizzatela ripetendola ogni giorno e ogni sera. Fatelo per due settimane, e prestate caso a quante volte quella frase vi verrà in mente durante la giornata. Per la maggior parte di voi, succederà molte volte. E qui viene la parte interessante. Avreste potuto cercare quella citazione in qualsiasi momento, trovarla e leggerla. Ma se non l’aveste memorizzata non vi sareste mai fermati un momento a pensare: “Mi chiedo se ci possa essere una citazione adatta da usare in una situazione come quella in cui mi trovo ora”. Non vi sarebbe mai venuta in mente. La citazione vi sarebbe solo venuta in mente se ci fosse stata occasione di entrarvi in contatto in precedenza. Questo esperimento mostra la fallacia del fare affidamento sulla possibilità di cercare le cose, senza impararle. I nostri pensieri derivano da ciò che conosciamo, non da cosa potremmo conoscere. Troviamo un senso grazie alla nostra conoscenza e alle cose in cui crediamo, non con quello che possiamo cercare su uno smartphone.

Conclusione
Quando userete ciò che state imparando durante il vostro corso a scuola? Non lo so. Nessuno lo sa. Vale comunque la pena imparare anche se non vediamo la possibilità di trovare subito un’applicazione pratica? Probabilmente sì, perché applichiamo le nostre conoscenze a situazioni che ancora non conosciamo o a situazioni in cui non sappiamo nemmeno quali conoscenze potremo applicare. È una situazione in cui vi chiediamo di avere un po’ di fiducia in quelli che ci sono già passati e ora stanno insegnando cose a voi. I concetti in questo saggio non esonerano i vostri insegnanti dalla responsabilità di fare il loro meglio per aiutarvi a conoscere i campi in cui si applica la matematica. Hanno ancora un ruolo importante nel farlo. Ma se stanno facendo del loro meglio e malgrado questo continuate a non essere completamente soddisfatti, allora le cose spiegate qui possono aiutarvi a capire meglio.

Imparare il più possibile di tutto paga sempre. Certo, non potete imparare proprio tutto, ma più imparerete più potrete essere buoni giudici nel decidere che cosa vale la pena imparare. A che cosa vi serva imparare quelle cose lo capirete meglio collegando i puntini a ritroso.