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  • Domenica 30 novembre 2014

Storia del casco da football americano

Dai primi in cuoio a quelli "doppi" degli anni Ottanta, fino a quelli utilizzati in questi anni di discussioni su traumi e commozioni cerebrali

Carolina Panthers' Greg Olsen (88) is tackled by Philadelphia Eagles' Casey Matthews (50) after catching a pass during the first half of an NFL football game, Monday, Nov. 10, 2014, in Philadelphia. (AP Photo/Matt Rourke)
Carolina Panthers' Greg Olsen (88) is tackled by Philadelphia Eagles' Casey Matthews (50) after catching a pass during the first half of an NFL football game, Monday, Nov. 10, 2014, in Philadelphia. (AP Photo/Matt Rourke)

Il casco da football americano serve ai giocatori per evitare, o per lo meno ridurre, la possibilità di traumi cerebrali durante gli scontri di gioco. Da anni negli Stati Uniti si parla delle conseguenze fisiche del football americano su chi lo pratica, uno degli sport più violenti ma anche più popolari del paese, e in particolare delle frequenti commozioni cerebrali subite dai giocatori durante le partite. Nel football, infatti, più di metà dei giocatori (si gioca in 11) ha il compito di bloccare gli avversari per favorire la circolazione della palla: blocchi, scontri e collisioni sono normali e spesso avvengono con la testa (qui una piccola guida alle regole del gioco). Da qui la necessità per i giocatori di indossare qualcosa che li protegga.

Circolano diverse storie sull’invenzione del casco da football americano, ma quella che viene raccontata più spesso e che è più credibile – secondo il sito dello Smithsonian (l’istituto di istruzione e ricerca americano) – è quella di Joseph Mason Reeve, ammiraglio della Marina americana. L’Army-Navy Game è la partita di football con la rivalità più forte e di lunga data tra i college militari americani: per l’esercito gioca la squadra dell’accademia di West Point e per la marina quella di Annapolis. Il casco sarebbe stato inventato dall’ammiraglio Reeve per un motivo preciso: aveva preso così tanti colpi alla testa durante queste partite di football che, a detta del suo medico, un altro forte impatto gli avrebbe causato “una demenza istantanea”. Non volendo rinunciare a giocare la partita del 1893, Reeve andò dal suo calzolaio per farsi creare un cappello di finta pelle con i paraorecchie.

Durante gli anni Venti e Trenta apparvero nei campi da gioco varie versioni del casco di pelle, ma non erano sufficienti a proteggere i giocatori: il primo vero passo verso una maggiore sicurezza, racconta l’Atlantic, si ebbe con l’invenzione del casco di plastica di John T. Riddell, nel 1939. La sua società, la Riddell, è ancora oggi la prima venditrice di caschi in NFL (il più importante campionato di football americano).

Durante la Seconda guerra mondiale la plastica cominciò a scarseggiare e non furono più prodotti caschi fino a dopo la fine della guerra. Le prime versioni dei caschi erano fatte di plastica fragile, che si rompeva all’impatto. I medici negli anni Cinquanta cominciarono a preoccuparsi del fatto che i caschi non fossero abbastanza solidi da proteggere i giocatori da traumi cerebrali, soprattutto perché il gioco era diventato sempre più fisico e gli scontri erano continui e molto duri.

Un video degli scontri più duri della NFL e della NCAA (la lega di football professionistico e la lega dei college americani):

Nel 1962 Sports Illustrated, uno dei più famosi periodici sportivi americani, pubblicò un articolo sull’argomento in cui un neurochirurgo del Michigan, Richard Schneider, analizzava le 18 morti che avvennero nel 1959 durante le partite di football. Schneider dimostrò che 14 delle 18 morti erano state causate da lesioni alla testa o alla spina dorsale. Le attrezzature dell’epoca erano state spesso ritenute addirittura responsabili di molte lesioni, come il casco di plastica e la grata protettiva attaccata al casco davanti al viso, introdotta verso gli anni Sessanta. In realtà sia il casco di plastica, sia la grata protettiva – approvati dall’American Medical Association (l’associazione medica nazionale) – avevano aiutato i giocatori a prevenire numerosi infortuni, come fratture alla mandibola, nasi rotti e lesioni facciali che fino a poco tempo prima erano comuni, ma non erano sufficienti a evitare che gli scontri in alcuni casi potessero causare danni molto gravi.

Negli anni Ottanta Mark Kelso, un giocatore dei Buffalo Bills che aveva preso molti colpi alla testa e rischiava lesioni pericolose, cominciò a usare un nuovo tipo di casco durante le partite. Questa nuova protezione si chiamava ProCap ed era in pratica un secondo casco, indossato sul casco di plastica usato comunemente: forniva un altro strato di protezione che rendeva gli impatti meno duri. Alcuni studi iniziali sui manichini dimostravano che la testa all’interno di un ProCap riceveva il 30 per cento in meno di scosse rispetto a una senza. Nonostante la scomodità di questo casco, il ProCap divenne popolare tra i giocatori finché, intorno agli anni Novanta, il comitato per le commozioni cerebrali della NFL iniziò a impedirne l’uso. Secondo un articolo della rivista americana Bloomberg, nel 1996 il comitato mandò una nota ai giocatori avvisandoli che usare il ProCap in realtà annullava la protezione del casco regolare, e che rischiavano di subire lesioni tremende al collo se non addirittura la morte. I produttori dei caschi ProCap hanno sempre negato questa possibilità.

Il casco ProCap di Mark Kelso (il giocatore a sinistra)

Il casco ProCap di Mark Kelso

Fu poi introdotto nel 2002 dalla Riddell un altro casco volto a ridurre la possibilità di subire commozioni cerebrali, chiamato “Revolution”, che fu progettato appositamente per le squadre di college: è fatto in policarbonato, un materiale leggero ma resistente. Oggi il miglior casco in circolazione è probabilmente lo “Speedflex” della Riddell che ha un sistema di assorbimento dell’impatto, con una cerniera nella parte superiore rivestita di gomma che riduce la forza del colpo. Inoltre la grata protettiva è agganciata al casco in 4 punti differenti, così da permettere di distribuire la forza dell’impatto su tutto il casco e non più soltanto sulla fronte del giocatore. I caschi sono fatti in policarbonato, mentre l’imbottitura è in vinile e gommapiuma.

Il casco “Speedflex” della Riddell

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In ogni caso, per quanto un casco possa essere all’avanguardia e sicuro, non potrà mai eliminare le conseguenze fisiche di un forte scontro. Nel 2000 uno studio dell’accademia americana di neurologia presentò uno ricerca condotta su 1094 ex giocatori professionisti che conteneva dati impressionanti. Lo studio sosteneva che circa il 61% dei pazienti aveva avuto almeno una commozione cerebrale nel corso della propria carriera, e inoltre che “il 49 per cento ha sperimentato perdita della sensibilità e formicolii; il 28 per cento artriti al collo o al nervo cervicale; il 31 per cento ha problemi di memoria; il 16 per cento non è in grado di vestirsi autonomamente; l’11 per cento non è in grado di nutrirsi autonomamente”. Nella stagione 2012 sono state diagnosticate 261 commozioni cerebrali, mentre l’anno dopo, durante la stagione 2013, ne sono state diagnosticate 228.

Oggi i giocatori che subiscono un forte trauma alla testa vengono valutati dal medico di squadra, che dopo un veloce esame cerca di capire se il giocatore sia in grado di ritornare in campo per riprendere la partita. Il 15,8% dei giocatori che subiscono una commozione cerebrale, abbastanza grave da procurare una perdita di coscienza, tornano a giocare lo stesso giorno. La Riddell intanto sta sviluppando un casco “intelligente”, dotato di sensori che possano comunicare alla panchina la potenza dell’urto che il giocatore ha subito, per avere dati precisi su cui basarsi per capire le sue condizioni e rendere il gioco più sicuro.

Un video che spiega la forza dell’impatto tra due giocatori:

Una vecchia pubblicità che spiegava l’utilità dell’elmetto di pelle: