• Mondo
  • Domenica 26 ottobre 2014

Essere prigionieri dello Stato Islamico

Una giornalista del New York Times racconta la vita degli ostaggi occidentali in mano all'IS - il rapimento, le torture, gli interrogatori - fino alla loro liberazione, o uccisione

This photo posted on the website freejamesfoley.org shows journalist James Foley in Aleppo, Syria, in September, 2012. The family of an American journalist says he went missing in Syria more than one month ago while covering the civil war there. A statement released online Wednesday by the family of James Foley said he was kidnapped in northwest Syria by unknown gunmen on Thanksgiving day. (AP Photo/Manu Brabo, freejamesfoley.org) NO SALES
This photo posted on the website freejamesfoley.org shows journalist James Foley in Aleppo, Syria, in September, 2012. The family of an American journalist says he went missing in Syria more than one month ago while covering the civil war there. A statement released online Wednesday by the family of James Foley said he was kidnapped in northwest Syria by unknown gunmen on Thanksgiving day. (AP Photo/Manu Brabo, freejamesfoley.org) NO SALES

La giornalista rumena Rukmini Maria Callimachi, vincitrice di un premio Pulitzer nel 2009, ha scritto un lungo articolo sul New York Times che racconta la prigionia degli ostaggi occidentali dello Stato Islamico (IS) in Siria. L’articolo si intitola “The Horror Before the Behadings” (“L’orrore prima delle decapitazioni”) ed è basato sulle interviste a cinque ex-ostaggi, agli abitanti locali che hanno visto e potuto raccontare qualcosa, ai colleghi e famigliari degli ostaggi e a un ristretto circolo di consiglieri che ha fatto diversi viaggi nella regione per cercare di negoziare coi rapitori. Alcuni dettagli cruciali della storia sono stati confermati da un ex-membro dell’IS.

La storia di Callimachi è un’esclusiva del New York Times, come l’ha definita lo stesso quotidiano: si tratta di una ricostruzione importante che fornisce molti particolari finora sconosciuti sulle condizioni di prigionia degli ostaggi occidentali dell’IS. Callimachi ha scritto su Twitter di avere cominciato a lavorarci dal giugno 2014. La storia ruota attorno soprattutto alla vicenda personale di James Foley, il giornalista americano rapito in Siria il 22 novembre 2012 e poi ucciso dallo Stato Islamico: la sua decapitazione fu mostrata in un video diffuso il 19 agosto del 2014.

La cattura
I 23 ostaggi occidentali finiti nelle prigioni dello Stato Islamico sono stati rapiti con modalità simili. Gli attacchi – compiuti da gruppi diversi, non necessariamente dall’IS – furono pianificati seguendo gli spostamenti dei locali assunti dai giornalisti o cooperanti occidentali, per lo più interpreti o autisti. Due anni fa James Foley stava viaggiando assieme al fotogiornalista britannico John Cantlie verso il confine turco: i due si erano fermati in un internet caffè per scaricare alcuni file e foto. Un uomo con una barba lunga e uno sguardo con “occhi da diavolo” era entrato e aveva cominciato a fissare Foley e Cantlie. Poco dopo, a circa 25 chilometri dal confine turco, i due finirono in un’imboscata: furono fatti sdraiare a terra, ammanettati e caricati su un furgone. Da allora altri occidentali sono stati rapiti: fra questi, quattro giornalisti francesi nel giugno 2013, tre giornalisti spagnoli nel settembre 2013, e poi l’americano Peter Kassig, il britannico Alan Henning e cinque cooperanti di Medici Senza Frontiere.

Gli interrogatori e le torture
“Password”, fu la prima richiesta che diversi ostaggi ricevettero dai rapitori. Agli occidentali furono sequestrati laptop, telefoni cellulare, videocamere e fotocamere: i rapitori analizzarono le timeline Facebook, le chat di Skype, le immagini in archivio e le mail, cercando prove di una qualche collaborazione con le agenzie di intelligence o con gli eserciti occidentali. Il fotogiornalista 37enne polacco Marcin Suder, rapito in Siria nel luglio 2013 e poi scappato quattro mesi dopo, ha raccontato a Callimachi:

«Mi hanno portato in un edificio per l’interrogatorio. Hanno controllato la mia fotocamera. Il mio tablet. Poi mi hanno spogliato completamente. Ero nudo. Hanno cominciato a cercare un chip GPS sotto la mia pelle o i miei vestiti. Poi hanno cominciato a picchiarmi. Hanno cercato su Google “Marcin Suder and CIA”, “Marcin Suder e KGB”. Mi hanno accusato di essere una spia.»

Jejoen Bontick, 19enne belga che nell’estate del 2013 passò tre settimane nella stessa cella di Foley, ha raccontato alcune delle torture subite da Foley durante la prigionia: «Lui mi disse che gli avevano incatenato i piedi e una sbarra. Poi avevano appeso la sbarra in modo che lui rimanesse a testa in giù. E lo avevano lasciato lì». All’inizio Foley e Cantlie erano in mano ai miliziani del Fronte al Nusra, i rappresentanti di al Qaida in Siria: le loro guardie, che parlavano inglese ed erano state soprannominate dagli ostaggi “i Beatles”, “sembravano trarre piacere nel torturarli”. I due furono spostati altre tre volte, e poi arrivarono all’ospedale di Aleppo.

Le conversioni all’Islam
Foley si convertì all’Islam poco dopo il rapimento e prese il nome Abu Hamza. La maggior parte degli ostaggi occidentali si convertì durante la prigionia e solo pochi di loro mantennero la loro fede (uno di questi fu Steven Sotloff, ebreo, decapitato dallo Stato Islamico dopo Foley). La conversione era anche un modo per essere trattati meglio dai rapitori. Per un periodo le torture compiute su Foley e Cantlie terminarono. Un giorno le guardie portarono loro dei cioccolatini. Poi Bontick venne liberato: prima di andarsene si fece dare il numero della famiglia di Foley e promise di chiamarla. Sembrava che presto anche i due occidentali sarebbero stati liberati.

Il trasferimento ad Aleppo
Lo scorso anno il gruppo di ribelli che controllava la zona dell’ospedale di Aleppo annunciò la sua alleanza con lo Stato Islamico (che allora si chiamava ancora Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, ISIS). La guerra in Siria intanto si stava trasformando: i gruppi ribelli moderati avevano cominciato a combattere – oltre che contro il regime del presidente Bashar al Assad – anche contro i miliziani più estremisti, i cosiddetti “jihadisti”. Perdendo progressivamente terreno e forza. Diversi gruppi cominciarono a trasferire i rispettivi prigionieri nello stesso posto, all’ospedale di Aleppo. A diversi ostaggi fu dato un numero, come se ci fosse un sistema di “catalogazione” non diverso da quello usato dagli americani nei confronti dei loro prigionieri in Iraq (il capo dell’IS, Abu Bakr al-Baghdadi, fu tenuto per un breve periodo di tempo in uno di questi centri). Ai prigionieri fu chiesto un indirizzo mail per comunicare con le famiglie.

Pagare i riscatti
Nel dicembre del 2013 Foley organizzò una versione carceraria del “Secret Santa”, uno scambio di regali anonimo che è tradizione in alcuni paesi occidentali. Foley ricevette da un suo compagno di cella una specie di cuscino fatto con la cera delle candele per appoggiare più delicatamente la testa a terra nel gesto di pregare. Col passare delle settimane, gli altri ostaggi cominciarono a essere chiamati fuori dalla cella per rispondere ad alcune domande. Gli statunitensi e i britannici no. I rapitori stavano selezionando gli ostaggi a seconda delle nazionalità: da una parte quelli di paesi che pagavano il riscatto – gli europei tranne il Regno Unito – e dall’altra parte quelli che non lo pagavano – Regno Unito e Stati Uniti. Spagnoli e francesi furono liberati nelle settimane successive: per gli altri ripresero le torture. Alcuni ostaggi furono sottoposto a waterboarding, la stessa tecnica usata dalla CIA su alcuni prigionieri musulmani durante l’amministrazione di George W. Bush.

James Foley fu l’ostaggio preso più di mira: veniva picchiato ripetutamente, sottoposto a waterboarding e a finte esecuzioni. Un suo ex compagno di cella ha raccontato che quando Foley tornava dagli interrogatori senza avere tracce di sangue sul corpo era il segno che aveva subito le torture peggiori. Anche le condizioni all’interno della cella erano precarie: la maggior parte degli ostaggi era senza materasso e con poche coperte.

Le esecuzioni
In primavera gli ostaggi furono spostati da Aleppo a Raqqa, sempre in Siria, nella città considerata la capitale del Califfato islamico proclamato dall’IS. Lì i rapitori identificarono un ostaggio russo, Sergey Gorbunov, che fu visto l’ultima volta in video nell’ottobre 2013. Un giorno di primavera le guardie entrarono in cella e lo portarono fuori. Lo uccisero e filmarono il corpo: il video fu fatto vedere agli altri prigionieri e fu detto loro: «Questo è quello che vi succederà se i vostri governi non pagano». A giungo gli ostaggi occidentali rimasti nelle celle a Raqqa erano solo 7 dei 23 iniziali: quattro americani, tre britannici. Ad agosto cominciarono gli attacchi aerei americani contro lo Stato Islamico. Sembra che Foley avesse capito che stava per essere ucciso. In una lettera indirizzata alla sua famiglia diede istruzioni su come distribuire il denaro sul suo conto bancario.

Ad agosto Foley fu portato fuori dalla cella. Dovette indossare una tunica arancione, come quella dei detenuti di Guantanamo, e dei sandali di plastica. Fu portato su una collina fuori Raqqa. Fu fatto inginocchiare e fu costretto a leggere una testo contro il governo americano. E fu decapitato. Poi, col passare delle settimane, toccò a Sotloff, Haines e Henning. Oggi nelle mani dell’IS rimangono due americani – tra cui una donna che non è stata identificata – e un britannico.