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  • Mercoledì 22 ottobre 2014

Storie di un fotografo in Liberia

Michel du Cille spiega che cosa vuol dire – sul piano concreto e su quello emotivo – lavorare in uno dei paesi più colpiti dal virus ebola

di Michel du Cille - Washington Post

MONROVIA, LIBERIA-SEPTEMBER 24: Women who were among 15 Liberian patients that recovered from Ebola and were released from the ELWA 2 Ebola Treatment Unit cry as they greet family members on Tuesday September 24, 2014 in Monrovia, Liberia. Dr. Jerry Brown help to create the ELWA2 Ebola Treatment Unit; health workers are overwhelmed with a constant stream of new patients since the Ebola outbreak. Liberians have been living under most extreme conditions as the Ebola virus worsens. (Photo by Michel du Cille/The Washington Post)
MONROVIA, LIBERIA-SEPTEMBER 24: Women who were among 15 Liberian patients that recovered from Ebola and were released from the ELWA 2 Ebola Treatment Unit cry as they greet family members on Tuesday September 24, 2014 in Monrovia, Liberia. Dr. Jerry Brown help to create the ELWA2 Ebola Treatment Unit; health workers are overwhelmed with a constant stream of new patients since the Ebola outbreak. Liberians have been living under most extreme conditions as the Ebola virus worsens. (Photo by Michel du Cille/The Washington Post)

Una cosa di cui sono orgoglioso è che nei miei oltre quarant’anni di lavoro come fotoreporter ho sempre dato dignità ai soggetti che fotografo, specialmente quelli che mentre sono davanti alla mia macchina fotografica malati o sofferenti. L’incarico di seguire l’epidemia di ebola in Liberia, che ho ricevuto recentemente, si è rivelato estremamente impegnativo. Il rispetto è l’ultima e l’unica cosa che il mondo può offrire a una persona morta o morente. La stessa macchina fotografica, però, sembra tradire quella dignità che spero così tanto di riuscire a offrire. A volte la crudeltà di una scena raccapricciante non può essere addolcita. Come può uno dare dignità all’immagine di una donna morta distesa per terra, abbandonata, scoperta e sola, mentre le persone le passano accanto o la guardano da lontano? D’altra parte io credo che il mondo debba vedere gli effetti terribili e disumanizzanti di ebola. È una storia che deve essere raccontata: perciò ci si muove con sensibilità e preoccupazione, con cautela, senza essere troppo invasivi.

Raccontare ebola in Liberia significa essere vicini, a portata di macchina fotografica, alle devastazioni del virus. Quel lavoro mi ha portato a essere faccia a faccia con un altro elemento disumanizzante di questo virus: la paura. Dal momento che un pericolo silenzioso si nasconde dentro le persone infette da ebola, un semplice contatto si può rivelare pericoloso. C’è da fare molta attenzione.

A Monrovia, dove sono stato nelle scorse due settimane, la paura è sempre presente: tra le persone e tra i fotoreporter che cercano di catturare scene di disperazione tra le persone contagiate da ebola. La paura provoca un conflitto interiore: quanto devo avvicinarmi al soggetto per scattare una foto convincente? Se vado troppo vicino, non c’è troppo pericolo di essere contagiato? È la paura che guida le azioni che si fanno mentre si scattano le foto. Diventa uno strumento che ti guida e ti ricorda di fare molta attenzione a non farti contagiare. Le regole sono semplici: non toccare nessuno, e non lasciare che nessuno ti tocchi. Spruzza la soluzione al cloro sulle suole delle tue scarpe. Lavati le mani spesso con quella soluzione, anche se non hai toccato niente. Sono gesti che diventano abituali.

Negli Stati Uniti la paura ha assunto un significato diverso: quello dell’isteria. Lo scorso weekend dovevo andare a fare da tutor e insegnare fotogiornalismo all’Università di Syracuse, che però ha cancellato l’invito. Uno studente ha saputo che di recente ero stato in Liberia e ha detto di esserne preoccupato. Il giorno in cui era stato fissato il workshop ho ricevuto una telefonata in cui mi si chiedeva di stare alla larga.

Quando sono tornato dalla Liberia ho seguito tutte le istruzioni per chi torna da zone in cui c’è ebola. Ho seguito le raccomandazioni dal CDC (Centers for Disease Control and Protection) e da Medici Senza Frontiere su come fare attenzione a eventuali manifestazioni di sintomi. Mi sono misurato la temperatura due volte al giorno: nel mio caso, per via dell’ansia, quasi una volta ogni ora. I 21 giorni di osservazione raccomandati sono finiti, e stavo bene. Ero nelle condizioni per tornare al lavoro ed ero pronto e ansioso di insegnare qualcosa a quegli aspiranti fotoreporter. Sono arrabbiato per la decisione e mi dispiace non poter insegnare. È stata una perdita per gli studenti di giornalismo di Syracuse, un’occasione mancata per condividere esperienze vissute sul campo con futuri giornalisti.

Ora soprattutto, so cosa avrei potuto insegnare loro, sul potere e sull’esigenza di scattare foto che interpretino l’esperienza umana quando la vita di tutti i giorni si svolge sotto la nuvola di ebola. In uno degli incontri più emozionanti che mi sono capitati in Liberia, ho fotografato una famiglia che accompagnava una donna malata – che sembrava sul punto di morire – in cerca di cure mediche. Sanguinava dalla bocca, aveva il respiro corto e non riusciva a camminare. Quando il marito, la sorella e il fratello sono scesi dal furgone, tutti indossavano grossi sacchetti di plastica attorno alle mani, ai piedi e al corpo, per cercare di evitare il contagio con protezioni improvvisate. Sapevano che era l’unico modo di portare la loro parente gravemente malata all’unità di trattamento per ebola di Medici Senza Frontiere. Dover aspettare fuori dai cancelli era una cosa ovvia, ma per quella famiglia così preoccupata sono sicuro che un’ora sia sembrata molto più lunga, mentre la malata peggiorava.

A un certo punto mi sono avvicinato alla sorella della donna, che si era isolata contro un muro lontana dagli altri e da sua sorella, che stava agonizzando nel furgone. Restando a distanza di sicurezza le ho chiesto da quanto fosse malata sua sorella: mi ha detto che era più o meno una settimana. Poi mi ha chiesto alcune cose che non ho capito del tutto e a cui non ho saputo rispondere. Mentre provavamo a parlare e nessuno dei due capiva completamente la lingua dell’altro, comunicavamo con gli occhi. A me, i suoi occhi dicevano: «Questa è la fine». Io la guardavo e le dicevo: «Lo sai che è molto, molto malata». Lei diceva: «Sì, lo so». Mentre provavo a continuare la nostra conversazione inconcludente, la mia voce si è interrotta e mi sono uscite involontariamente le lacrime. Poi sono arrivati altri pazienti in ambulanza e ho ripreso a scattare fotografie.

È molto difficile rimanere impassibili mentre si racconta l’epidemia di ebola. Non si può non provare compassione e, soprattutto, cercare di essere rispettosi. In tre viaggi precedenti a Monrovia, verso la fine della guerra civile, avevo visto un paese in rovina. La lotta per la sopravvivenza della gente si toccava con mano. Oggi, mentre l’economia liberiana inizia a migliorare dopo anni di guerra civile, la vita si muove al classico ritmo frenetico dell’Africa e il virus ebola continua a uccidere, apparentemente sempre più velocemente. Fino a venerdì, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, si sapeva di 2.484 persone morte per ebola nella sola Liberia, e ci sono stati 4.262 casi confermati di contagio. Gli uffici governativi, incluso il palazzo di governo, sono chiusi. Il ministero per la Salute e per il Welfare è l’unico ufficio governativo attualmente operativo. È l’autorità locale responsabile per eradicare il virus ebola.

La vita è lontana dall’essere normale durante la crisi, ma le strade rimangono bloccate dal traffico intenso. Vecchi mezzi con fumo nero che esce dai tubi di scappamento si muovono tra buche giganti e pozzanghere profonde, provocate dalla stagione monsonica dell’Africa occidentale. Bambini scalzi in pantaloncini corti corrono dietro alle macchine agli incroci, vendendo varie cose come caramelle, gomme da masticare, biscotti alla crema, sacchetti in plastica pieni d’acqua e tergicristalli, mentre sembra che tutti ignorino le regole della strada. Il virus ebola ha colpito duramente New Kru Town, un quartiere di Monrovia. Le squadre di persone addette alle sepolture, in tuta protettiva, sono così piene di lavoro che i cadaveri delle persone morte di ebola spesso rimangono per terra per molto tempo, perfino appena fuori dal Redemption Hospital. Questo ospedale, che in questo periodo non si occupa di problemi di salute quotidiani, è utilizzato per ospitare e trasferire sia i pazienti sospettati di aver contratto ebola sia quelli confermati. Quando è pieno, quelli che vi si recano spesso aspettano fuori, stesi per terra o seduti per ore sulle ambulanze, e spesso muoiono lì. Nessuno può avvicinarsi o toccare i cadaveri senza tuta protettiva. Gli esperti dicono che il virus ebola è più contagioso quando chi lo ha contratto è morto. Di conseguenza, i corpi rimangono lì per delle ore, prima che le squadre con le tute li possano recuperare.

Nella capitale, Monrovia, chi muore per ebola viene cremato. Ma nelle province più periferiche la sepoltura è ancora l’unica possibilità. Gli operatori sanitari seppelliscono i morti dentro sacche di plastica. Calano il cadavere con semplici strisce di stoffa bianca: per più o meno cinquanta centimetri piegandosi sulla fossa, poi non hanno altra scelta se non quella di lasciare semplicemente cadere il corpo della buca, lunga e profonda un metro e ottanta, larga un metro e venti. Niente bara, niente cerimonia, niente parenti o amici. Le autorità hanno deciso questo metodo per evitare che il virus si diffonda alle sepolture.

A West Point, un movimentato bassofondo di Monrovia con una popolazione di 70 mila persone, un normale pomeriggio può sembrare una danza caotica, con le baracche, i banchi, i negozi e le case tutte indistinguibili le une dalle altre. Un giorno guardavo preoccupato, dal sedile del passeggero della nostra macchina, mentre la gente si metteva in coda per la distribuzione di cibo organizzata dal Programma Alimentare Mondiale dell’ONU, tutti uno contro l’altro, ignorando sfacciatamente i richiami delle autorità a non toccarsi a vicenda, per paura che ebola si diffonda tramite i contatti ravvicinati. L’ironia non è sconosciuta a West Point. Quando un giudice liberiano provò a portare in tribunale un uomo e una donna accusati di un grosso furto, l’uomo – in manette – vomitò sulla donna nella piccola aula. Subito il posto fu sgomberato e la coppia isolata, e venne chiamata un’ambulanza. Dopo aver spruzzato la soluzione al cloro su tutta l’area e sulle due persone accusate di furto, gli operatori sanitari si precipitarono in ambulanza con i due verso il Redemption Hospital. Quando arrivarono a sirene spiegate all’ospedale, aprirono le portiere e i due scapparono immediatamente, correndo per le strade, fuggendo da un futuro in una prigione liberiana.

Monrovia è sull’oceano Atlantico, sulla costa occidentale dell’Africa. Durante la stagione dei monsoni, che per scherzo la gente del posto dice durare sei mesi all’anno, il cielo è grigio, giorno e notte. La notte è buio pesto, e gli stranieri chiedono: «Dov’è la luna?». Da alcuni punti sopraelevati della città, ho scattato foto meravigliose dell’oceano, con tramonti da cartolina. È un’immagine di una città in crisi, che va avanti come se niente fosse, sperando in un futuro dignitoso.

© 2014 Washington Post

Nella foto: Un operatore sanitario spruzza un disinfettante su alcune persone dimesse dall’Island Clinic Ebola treatment center a Monrovia, in Liberia. (AP Photo/Jerome Delay)