A scuola in un campo nordcoreano

La storia terribile di Shin Dong-hyuk , l'unica persona nata nel Campo di concentramento 14 a essere riuscita a scappare e a lasciare la Corea del Nord

Shin Dong-hyuk è nato il 19 novembre 1982 nel Campo 14, ritenuto il campo di concentramento con il regime più duro tra quelli gestiti dal governo della Corea del Nord. Per 23 anni ha vissuto in un’area grande circa 48 chilometri per 24 nella zona centrale del paese insieme ad almeno altre 15mila persone. È cresciuto tra la stretta vigilanza delle guardie, i metodi brutali degli insegnanti a scuola, i lavori forzati massacranti e le continue esecuzioni pubbliche di prigionieri colpevoli di non avere seguito alla lettera le regole del campo. Istruito a dire sempre tutto ai suoi carcerieri, ha tradito madre e fratello quando cercarono di evadere dal campo, causandone l’impiccagione e la fucilazione. Nel 2005 con la complicità di un altro prigioniero ha trovato il modo di fuggire dal campo e, dopo un periodo in Cina, di raggiungere la Corea del Sud dove oggi vive.

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La storia di Shin è stata raccontata dal giornalista statunitense Blaine Harden del Washington Post, che ha intervistato Shin in più occasioni e ha poi verificato e incrociato tutte le informazioni che aveva ricevuto, per verificarne il più possibile l’accuratezza. Il libro “Fuga dal Campo 14”, pubblicato in Italia da Codice Edizioni: racconta la terribile storia di Shin, le condizioni di vita nel campo e l’avventuroso viaggio dell’ex prigioniero per scappare dalla Corea del Nord, dopo essere riuscito a fuggire dal campo di concentramento. Le sue testimonianze sono state estremamente importanti per avere informazioni sui campi di prigionia nordcoreani, sui quali il regime di Pyongyang mantiene la massima segretezza.

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A scuola

L’insegnante annunciò un’ispezione a sorpresa. Frugò nelle tasche di Shin e in quelle degli altri quaranta bambini della classe. Alla fine tutto ciò che gli rimase in mano erano cinque chicchi di mais, tutti appartenenti a una bimba esile e bassina e, nei ricordi di Shin, particolarmente graziosa. Ne ha dimenticato il nome, ma ogni altro dettaglio di quel giorno di scuola del giugno 1989 è tuttora nitido nella sua memoria. L’insegnante era già di pessimo umore all’inizio dell’ispezione, e quando trovò il mais esplose definitivamente.
«Brutta troia, ladra che non sei altro! Vuoi che ti tagli le mani??!».
Le ordinò di andare a mettersi in ginocchio di fronte al resto della classe, poi cominciò a picchiarla ripetutamente con la sua lunga bacchetta di legno. Mentre tutti guardavano in silenzio, sul cranio della piccola iniziarono a formarsi dei bozzi, e il naso cominciò a sanguinare.
Poco dopo crollò priva di sensi sul pavimento di cemento. Aiutato da alcuni compagni, Shin la sollevò e la portò a casa, in un allevamento di maiali non lontano dalla scuola. Morì la sera stessa.

Il comma 3 della terza regola del Campo 14 dice: «Chiunque venga sorpreso a rubare o a nascondere cibo sarà fucilato all’istante». Ma Shin sapeva che il più delle volte gli insegnanti non lo prendevano troppo seriamente: se trovavano del cibo nelle tasche di uno studente magari gli davano un paio di randellate con un bastone, ma era più facile che non facessero nulla. Shin e i compagni sfidavano spesso la sorte; per come la vedeva lui, quella bimba piccola e graziosa era stata solo sfortunata.

Aveva imparato dalle guardie e dagli insegnanti che le botte erano sempre meritate, per colpa del sangue corrotto ricevuto in eredità dai genitori. Per lei non fu diverso: Shin credeva che la sua punizione fosse giusta e non si arrabbiò mai con l’uomo che l’aveva uccisa. Era convinto che tutti gli studenti la pensassero allo stesso modo.
Il giorno dopo, a scuola, nessuno parlò del pestaggio. In classe non cambiò nulla, e con ogni probabilità il maestro non fu mai richiamato per il suo comportamento.

Shin passò tutti e cinque gli anni di scuola primaria nella classe di quell’individuo, un uomo sulla trentina che indossava una divisa militare e portava sempre una pistola. Negli intervalli tra le lezioni permetteva agli studenti di svagarsi giocando alla morra cinese, e il sabato a volte lasciava che dedicassero un’ora o due a togliersi reciprocamente i pidocchi. Non seppe mai il suo nome.

Alle elementari gli insegnarono a stare sull’attenti, a inchinarsi di fronte agli insegnanti e a non guardarli mai negli occhi. Il primo giorno di scuola gli venne consegnata una divisa nera: pantaloni, casacca, canottiera e un paio di scarpe. Queste ultime venivano sostituite ogni due anni, anche se iniziavano a sfasciarsi già dopo un mese o due. A volte, come premio speciale per il duro lavoro, gli allievi ricevevano del sapone; Shin non si distingueva certo per la sua diligenza, quindi non lo vide quasi mai. I suoi pantaloni erano talmente intrisi di sporco e sudore che stavano in piedi da soli, e se si grattava la pelle con un’unghia scavava un solco in uno spesso strato di lerciume.

Quando faceva troppo freddo per lavarsi nel fiume o sotto la pioggia, i prigionieri puzzavano come animali da fattoria, e d’inverno la sporcizia era tale che quasi tutti andavano in giro con le ginocchia nere. Finché fu in vita, la madre gli preparava biancheria intima e calze cucendo degli stracci, ma dopo la sua esecuzione la biancheria divenne un ricordo del passato, e rimediare brandelli di stoffa da mettere dentro le scarpe si rivelò una fatica continua.

La scuola, un agglomerato di edifici facilmente visibili nelle fotografie satellitari, distava circa sette minuti a piedi da casa. Lì le finestre erano di vetro, non di resina grigia, ma questo era l’unico lusso. Come la casa in cui viveva con sua madre, anche la scuola era un semplice blocco di cemento. L’insegnante stava su un podio di fronte a un’unica lavagna, mentre gli studenti sedevano ai due lati di un corridoio, i maschi da una parte e le femmine dall’altra. I ritratti di Kim Il Sung e Kim Jong Il – costante irrinunciabile di ogni aula della Corea del Nord – erano del tutto assenti.

Qui i bambini imparavano a malapena a leggere e a contare, venivano indottrinati sulle regole del campo e si sentivano ricordare in ogni momento che in loro scorreva sangue sciagurato. Alle elementari si seguivano le lezioni cinque giorni a settimana, alle superiori invece sette, con una giornata libera al mese. «Dovete ripulirvi dei peccati delle vostre madri e dei vostri padri! Dovete spaccarvi la schiena!» urlava il preside durante le assemblee.

Si iniziava alle otto in punto con una sessione chiamata chonghwa: significa “armonia totale”, ma in realtà non era che un momento in cui l’insegnante poteva rimproverare gli studenti per i comportamenti scorretti del giorno precedente. La frequenza veniva controllata due volte al giorno e non erano ammesse assenze, neanche per malattia. A Shin era capitato di accompagnare a scuola qualche compagno indisposto, ma lui, salvo qualche raffreddore, si ammalava raramente. Fu vaccinato una volta soltanto, per il vaiolo.

Imparò a leggere e scrivere l’alfabeto coreano esercitandosi su carta ruvida fatta nel campo con i cartocci delle pannocchie. Ogni semestre gli veniva consegnato un quaderno di venticinque pagine, mentre come matita usava spesso un bastoncino di legno appuntito annerito sul fuoco. Le gomme da cancellare non sapeva neanche cosa fossero.
Non erano contemplati esercizi di lettura, dal momento che l’unico libro disponibile era quello dell’insegnante. Come esercizi di scrittura, invece, gli studenti erano tenuti a spiegare perché non fossero stati in grado di lavorare sodo e seguire le regole. Shin imparò a fare le sottrazioni e le addizioni, ma non le moltiplicazioni e le divisioni. Ancora oggi, quando deve moltiplicare, aggiunge una colonna di numeri. […]

A scuola le domande non erano consentite, facevano arrabbiare i maestri e scatenavano furiosi pestaggi. Gli insegnanti parlavano, gli studenti ascoltavano. A furia di ripeterli in classe, aveva imparato alla perfezione l’alfabeto e la grammatica di base, anche se spesso pronunciava le parole senza avere idea di cosa significassero. L’insegnante instillò in tutti loro, a livello istintivo, il terrore di fare domande.

Il destino che attendeva Shin e compagni non era certo un segreto: la scuola primaria e secondaria li preparava ai lavori forzati. D’inverno i bambini spalavano neve, tagliavano alberi e trasportavano carbone per riscaldare la scuola. Per pulire le latrine nel villaggio dove le guardie (i bowiwon) spesso vivevano con mogli e figli, veniva mobilitato l’intero corpo studenti (circa mille persone). Andavano di casa in casa a sminuzzare le feci congelate con le zappe per poi gettarle a mani nude su delle rastrelliere: non c’erano guanti per i prigionieri del campo. Dopodiché trascinavano gli escrementi nei campi circostanti o se li caricavano sulla schiena. A volte, nei giorni più caldi e felici, dopo le lezioni del pomeriggio andavano a raccogliere cibo ed erbe per le guardie sulle colline e sulle montagne dietro la scuola. […]

Shin iniziò la prima elementare con altri due bambini del suo villaggio: Hong Sung Jo, un maschio, e Moon Sung Sim, una femmina. Per cinque anni andarono a scuola insieme e sedettero nella stessa classe, e così anche nei cinque anni che seguirono.

Per Shin, Hong Sung Jo era l’amico più stretto, quello che tra una lezione e l’altra gli teneva compagnia giocando al gioco dei cinque sassi. Le loro madri lavoravano nella stessa fattoria, ma nessuno dei due invitava mai l’altro a casa sua per giocare; i rapporti di fiducia tra amici erano avvelenati dalla competizione per il cibo e dalla spinta costante al tradimento. Nel tentativo di ottenere razioni di cibo extra, i bambini riportavano alle guardie tutto quello che mangiavano, indossavano e dicevano i loro vicini. Anche le punizioni collettive a scuola contribuivano a mettere gli studenti gli uni contro gli altri. Alla classe di Shin veniva spesso assegnata una quota giornaliera di alberi da tagliare o di ghiande da raccogliere; se non riuscivano a soddisfare le aspettative, venivano puniti tutti: dovevano cedere la razione del pranzo (per un giorno o a volte per un’intera settimana) a un’altra classe che, a differenza loro, fosse riuscita a raggiungere la quota. In queste missioni di lavoro Shin di solito era lento, e spesso era l’ultimo.

Una volta cresciuti, le missioni di lavoro (o, come venivano chiamate, gli “sforzi collettivi”) si fecero più lunghe e più difficili. Durante la “lotta alle erbacce”, che cadeva tra giugno e luglio, gli studenti delle elementari lavoravano dalle quattro del mattino fino al tramonto, strappando erbacce nei campi di mais, di fagioli e di sorgo. Iniziarono la scuola secondaria sapendo a malapena leggere e scrivere, ma a quel punto l’istruzione in classe era da considerarsi ormai conclusa, e i maestri si trasformavano in capisquadra. La scuola secondaria non era che un banco di prova per il lavoro nelle miniere, nei campi e nelle foreste, nonché, a fine giornata, un luogo di ritrovo per lunghe sessioni di autocritica.

Shin entrò nella sua prima miniera di carbone a dieci anni. Insieme a cinque compagni di classe (in tutto erano tre bambini e tre bambine, tra cui Moon Sung Sim) scesero giù per un condotto fino al fronte di scavo. Il loro lavoro consisteva nel caricare carbone su carrelli da due tonnellate e poi spingerli su per uno stretto binario fino a un’area di smistamento. Per raggiungere la quota giornaliera, dovevano riuscire a portarne in superficie quattro. Solo per i primi due ci voleva tutta la mattina. Dopo un pranzo a base di mais macinato e cavolo salato i bambini, esausti e con i visi ricoperti di polvere di carbone, tornavano in quella miniera nera come la pece facendosi luce con delle candele.
Un giorno, spingendo il terzo carrello, Moon Sung Sim perse l’equilibrio e uno dei piedi le scivolò sotto una ruota d’acciaio. Shin, che le stava a fianco, la sentì urlare e cercò subito di aiutarla a togliersi la scarpa; aveva un alluce schiacciato che non smetteva di sanguinare. Un altro studente le legò la stringa di una scarpa intorno alla caviglia come un laccio emostatico. Aiutato da due compagni, Shin sollevò Moon e la caricò su un carro vuoto. Lo spinsero fino all’apertura della miniera e da qui portarono la bambina all’ospedale del campo, dove il dito ferito le fu amputato senza anestesia e medicato con acqua salata. […]

Shin ricorda un dodicenne robusto e orgoglioso di nome Ryu Hak Chul, che dormiva sempre dove gli pareva e che fu l’unico tra i ragazzi che ebbe il coraggio di rispondere male a un insegnante. Un giorno Ryu se ne andò nel bel mezzo di un lavoro, e appena denunciata la scomparsa l’insegnante mandò l’intera classe alla sua ricerca.
«Per quale motivo hai smesso di lavorare e sei corso via?» gli chiese quando ormai l’avevano ritrovato e lo stavano riportando a scuola.
Con grande sorpresa di Shin, Ryu non si scusò: «Mi è venuta fame e sono andato a mangiare» rispose senza scomporsi.
L’insegnante rimase di sasso. «Questo figlio di puttana sta forse cercando di rispondermi a tono?» chiese l’insegnante.
Ordinò agli studenti di legarlo a un albero, e loro subito gli tolsero la camicia, presero del fil di ferro e procedettero.
«Colpitelo fino a quando non ricomincia a ragionare» disse.
Senza pensarci due volte, Shin si unì al pestaggio e tutti insieme frustarono Ryu.