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  • Lunedì 13 ottobre 2014

I nazionalisti sono avanti in Bosnia

I partiti etnici di musulmani, serbi e croati sono in vantaggio per la presidenza tripartita del paese, che funziona in modo piuttosto complicato

Bosnian supporters wave with flag during rally of the SDA (Party of Democratic Action) ruling Bosnian Muslim Party, in Sarajevo, on Friday, Oct. 10, 2014. Bosnia holds general elections on Sunday. (AP Photo/Amel Emric)
Bosnian supporters wave with flag during rally of the SDA (Party of Democratic Action) ruling Bosnian Muslim Party, in Sarajevo, on Friday, Oct. 10, 2014. Bosnia holds general elections on Sunday. (AP Photo/Amel Emric)

Circa il 77 per cento delle schede è stato scrutinato in Bosnia ed Erzegovina – dove si sono svolte domenica le elezioni generali – e risulta che i candidati alla presidenza dei cosiddetti partiti etnici o nazionalisti, cioè quelli mirati esplicitamente a raccogliere i voti di uno dei gruppi religiosi o linguistici in cui è diviso il paese, sono in vantaggio. Bakir Izetbegovic, del partito musulmano SDA (Partito d’azione democratica) ha ottenuto finora il 33 per cento dei voti tra i bosgnacchi ed è a circa otto punti di vantaggio sul suo rivale (Fahrudin Radoncic). Per ora risultano in vantaggio – anche se il margine è piuttosto ristretto – Zeljka Cvijanovic per la rappresentanza serba e ortodossa (del partito SNSD, Alleanza dei Social Democratici Indipendenti) e Dragan Covic tra i croati e cattolici (del partito HDZ BIH, Unione Democratica Croata di Bosnia ed Erzegovina). L’affluenza alle urne è stata del 54,14 per cento, due punti percentuali in meno rispetto alle ultime elezioni del 2010.

Quella di domenica è la settima elezione dopo gli accordi di pace di Dayton del 1995 che misero fine alla guerra cominciata in Bosnia ed Erzegovina nel 1992 tra i principali gruppi etnici e religiosi, e che diedero vita a una organizzazione del paese piuttosto complicata. La Bosnia ed Erzegovina è infatti divisa nella Federazione della Bosnia ed Erzegovina – abitata in prevalenza da bosgnacchi (musulmani) e croati (cattolici) – e nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina – abitata in prevalenza da serbi (ortodossi). In più c’è il distretto di Brčko, ricavato prendendo del territorio da entrambe le entità, ma supervisionato da un rappresentante internazionale, l’Alto Rappresentante.

Ognuna delle tre componenti etnico-religiose elegge un presidente che a turno, per otto mesi, esercita il suo mandato nel corso di quattro anni. I presidenti nominano il primo ministro che deve ricevere la fiducia della camera bassa: due terzi dei 42 membri della camera bassa vengono eletti dalla Federazione e un terzo dalla Repubblica. Domenica si è votato per i parlamenti delle due “entità”, per la camera bassa del parlamento nazionale e per il rinnovo dei tre presidenti. Di fatto la Bosnia ed Erzegovina è un paese a sovranità limitata: la comunità internazionale è in attesa di una serie di miglioramenti negli indicatori di democraticità del paese per rimuovere la sua tutela, che è stata spesso molto pesante e per avviare l’integrazione del paese nella NATO e nell’UE.

Proprio per questo, poco prima del voto, l’Unione Europea aveva fatto sapere che dal nuovo governo del paese ci si sarebbe aspettati la promozione di un’attesa riconciliazione nella società e nella politica, necessaria «a colmare il divario con il resto della regione». Durante la campagna elettorale, però, i vari candidati hanno scelto di rivolgersi direttamente al proprio gruppo etnico di appartenenza piuttosto che ai bosniaci nel loro complesso portando avanti ognuno la propria visione del paese: in particolare, i serbo-bosniaci hanno chiesto la dissoluzione dello stato esistente e i croati hanno insistito sulla secessione all’interno della Bosnia.

La votazione si è svolta in mezzo a un crescente malcontento sociale: la corruzione è endemica, la disoccupazione ufficiale è al 44 per cento e il salario medio mensile è 415 euro. Lo scorso febbraio nel paese ci sono state proteste piuttosto violente, che però non hanno portato a un cambiamento nella classe politica. Diversi analisti hanno avvertito che i nuovi funzionari eletti dovranno agire rapidamente altrimenti si rischia di innescare un nuovo ciclo di proteste.