Il caso Segarra e Goldman Sachs

Un'ex impiegata della Federal Reserve ha diffuso una serie di registrazioni che dimostrano il conflitto di interessi tra una delle banche più grandi del mondo e chi la deve controllare

Negli ultimi giorni negli Stati Uniti si sta parlando molto delle rivelazioni di Carmen Segarra, un’ex-impiegata della Federal Reserve di New York (una delle divisioni regionali della FED), riguardo a una serie di rapporti ambigui e di conflitti di interesse tra la grande banca d’affari Goldman Sachs e gli enti pubblici che dovrebbero regolarla. Segarra è stata licenziata nel 2013 dalla Federal Reserve di New York, a cui poi ha fatto causa: ha sostenuto che il suo licenziamento fosse stato causato dalla sua eccessiva severità nei confronti di Goldman Sachs, molto diversa rispetto all’atteggiamento più morbido dei suoi superiori. A sostegno della sua tesi, Segarra ha pubblicato 46 ore di registrazioni di riunioni con i suoi colleghi e con i dirigenti della banca. Il giornalista del sito ProPublica Jake Bernestein, in collaborazione con il programma radio This American Life, ha pubblicato un lungo e documentato articolo in cui racconta tutta la storia dall’inizio (qui si può ascoltare il programma radio che contiene alcune delle registrazioni fatte da Segarra).

La storia di Segarra è cominciata nel 2008, subito dopo l’inizio della crisi finanziaria che ha minacciato di distruggere l’intera economia degli Stati Uniti. In quel periodo tra i politici e gli enti regolatori si sentiva la necessità di riformare il sistema finanziario nazionale, tra cui anche la Federal Reserve di New York. La banca centrale americana (la FED), come quasi tutte le altre banche centrali, ha tra i suoi compiti anche quello di sorvegliare e regolare le istituzioni finanziarie. Negli Stati Uniti questo sistema funziona su base regionale (il paese è diviso in 12 distretti, ognuno con una sua FED regionale). Il più importante di questi distretti è quello di New York, dove hanno sede le principali banche del paese.

Per avviare un processo di riforma, la Federal Reserve di New York ingaggiò David Beim, un professore di finanza della Columbia University, e lo incaricò di compiere un’indagine segreta e molto approfondita su tutto quello che non andava nella struttura dell’organizzazione. Il rapporto non era destinato alla pubblicazione e Beim ricevette accesso completo a tutto il personale e a tutti i documenti. Le conclusioni di Beim non furono generose: il problema principale della FED di New York, scrisse, era la sua stessa cultura. I sottoposti avevano paura a contraddire i superiori, mentre i giudizi sulle banche che bisognava controllare venivano molto attenuati. Nelle riunioni si cercava di ottenere il consenso più ampio, invece che cercare di arrivare alla giusta conclusione.

Beim spiegò in parte questo meccanismo come il risultato quasi naturale di una serie di condizioni lavorative presenti nella FED. In ognuna delle banche che la FED deve sorvegliare, gran parte del lavoro è svolto da un team di impiegati che ha uffici e scrivanie accanto agli impiegati della stessa banca. A volte questo rapporto dura per anni, visto che non è prevista una rotazione dei dipendenti della FED tra i vari istituti. Secondo Beim fa parte della natura umana cercare di avere buoni rapporti con le persone con cui si lavora tutti i giorni: per questo gli impiegati della FED rischiano di acquisire una cultura del “non disturbare” nei confronti di coloro che dovrebbero sorvegliare. C’è anche un altro aspetto: l’enorme differenza di stipendio tra regolatori – cioè dipendenti della FED – e banchieri. Considerato lo stipendio molto più alto dei banchieri, molto spesso chi lavora negli enti regolatori non resiste alla tentazione di passare dall’altro lato della barricata. Si tratta di un fenomeno ben conosciuto. Come ha raccontato al Guardian Lance Roberts, manager di una società di consulenza: «La gente non va a lavorare nei regolatori per regolare Wall Street. Lo fa per andare a lavorare a Goldman o per un’altra banca». In altre parole: sia che abbiano secondi fini o che siano semplicemente esseri umani, la struttura della FED è disegnata per rendere i suoi impiegati molto poco severi nei confronti dei loro controllati.

Beim ha raccontato anche che dopo aver inviato il suo rapporto ed essere stato ringraziato dal presidente della FED di New York non ha più saputo niente di tutta la faccenda. Per quanto probabilmente non tutti i suggerimenti di Beim furono accolti, la FED di New York mise in campo alcuni tentativi di riforma. Tra questi ci fu la scelta di affiancare esperti del rischio ai gruppi che lavoravano costantemente con una banca. Il compito di questi esperti doveva essere quello di limitare quei rapporti di eccessiva complicità denunciati da Beim. Carmen Segarra fu una di questi esperti. Fu assegnata a Goldman Sachs, una delle principali banche d’affari di New York, e il suo lavoro alla FED durò soltanto sette mesi. Venne licenziata con l’accusa di aver svolto il suo lavoro in maniera non soddisfacente. Segarra ha fatto causa alla FED, ha perso, ha fatto appello e ha consegnato ai giudici le quasi 46 ore di registrazione che aveva fatto con un microfono nascosto quando aveva cominciato a capire che alcune delle cose che succedevano alla FED non erano propriamente regolari.

Uno dei primi casi “controversi” nei quali Segarra si è imbattuta riguardava un accordo tra Goldman Sachs e il Banco Santander, una grande banca spagnola. L’accordo in sostanza prevedeva che Goldman Sachs “custodisse” alcune azioni di una società posseduta da Santander per permettere alla banca spagnola di mostrare dei bilanci migliori ai regolatori europei (Goldman Sachs veniva pagata per “fare la guardia a una valigetta”, come venne descritta l’operazione). Segarra era scettica sin dall’inizio sull’operazione, formalmente legale, ma mirata a far apparire i bilanci di Santander migliori di quanto fossero in realtà. Indagando in maniera più approfondita, nonostante l’ostilità più o meno esplicita dei suoi superiori, Segarra scoprì che nell’accordo tra le due banche c’era una clausola in cui veniva specificato che Goldman Sachs avrebbe dovuto ottenere il “nulla osta” all’operazione da parte dei regolatori americani, cioè della FED. Goldman Sachs, però, non aveva chiesto alcun nulla osta. Interpellati da Segarra, i manager di Goldman risposero che quella clausola non era affatto vincolante.

Dopo molte discussioni – in gran parte registrate – Segarra riuscì a spingere i suoi superiori a confrontarsi con i manager della banca e a chiedere conto di quella clausola. Segarra registrò l’incontro. Mike Silva, uno dei capi di Segarra, chiese conto a Goldman in un tono non proprio stringente: «Giusto per chiarire un punto. So che nell’accordo si parlava di avvisare il vostro regolatore e che c’era anche un accenno a un nulla osta da esprimere. Queste cose a un certo punto sono state lasciate cadere, oppure…?». Per comprendere come l’atteggiamento dei capi della FED corrisponda esattamente alle accuse fatte dal professor Beim, Bernestein – l’autore dell’articolo su ProPublica – ha affiancato alcune frasi contenute nel rapporto di Beim ad altre pronunciate da Jonathan Kim, uno dei superiori di Segarra, e rivolte alla stessa Segarra. Il risultato è interessante.

Kim: «Ti chiederei di pensare un po’ di più prima di tutto alla scelta della parole che utilizzi e di non arrivare così in fretta alle conclusioni».
Rapporto Beim: «Visto che in molti sembrano avere paura nel contraddire i loro capi, i manager devono ripetere ai loro subordinati che hanno il dovere di parlare, anche contraddicendo i loro capi».

Kim: «Utilizzi troppo spesso la parola “definitivamente”. Quando la utilizzi deve avere il consenso di tutti, non soltanto il tuo».
Rapporto Beim: «Un problema collegato è che cercare di ottenere un consenso generale su tutto può portare all’annacquamento dei problemi rintracciati e all’ammorbimento dei risultati emersi dai controlli. Il compromesso spesso risulta in un linguaggio meno diretto e in richieste meno stringenti alla banca coinvolta».

Un altro caso del genere ha riguardato le politiche anti-conflitto di interesse interne alla banca. Per decisione della FED tutte le banche devono avere una serie di linee guida interne contro i conflitti di interessi: la stessa FED specifica chiaramente cosa deve esserci e cosa non deve esserci in queste linee guida. Durante il suo lavoro, Segarra scoprì che in realtà dentro Goldman Sachs le regole interne contro il conflitto di interessi erano spezzettate in una serie di norme che variavano da dipartimento a dipartimento, e impossibili da ritrovare in una forma unica, chiara e comprensibile. Segarra fece esaminare queste linee guida ad alcuni avvocati che le confermarono che non si trattava di regolamenti che rispettavano le linee guida della FED. Bernestein ha inviato i regolamenti ad altri due grandi studi di avvocati che hanno confermato l’analisi di Segarra. Nelle registrazioni, alcuni manager della banca confermarono a Segarra che la banca non possiede un regolamento comprensivo in materia di conflitto di interessi.

Con questi documenti, Segarra preparò un rapporto in cui affermava che Goldman Sachs non possedeva dei regolamenti contro il conflitto di interessi in linea con le prescrizioni della FED. I suoi superiori cercarono di bloccare il suo rapporto e di costringerla a modificarlo. In una e-mail, Silva ad esempio le scrisse: «Alla luce delle tue continue e insistenti affermazioni che Goldman Sachs non ha una politica scritta contro il conflitto di interessi, sono stato piuttosto sorpreso di trovare sul loro sito una pagina intitolata “Sezione sul conflitto di interessi”». In quella pagina erano presenti proprio quei regolamenti che erano stati giudicati da diversi avvocati insufficienti rispetto ai requisiti richiesti dalla FED. In diverse registrazioni si possono sentire i superiori di Segarra chiederle di cambiare il suo rapporto e di scrivere che Goldman Sachs dopotutto ha un regolamento contro il conflitto di interessi, anche se avrebbe dovuto essere riformato. Segarra si rifiutò e dopo una settimana venne licenziata.