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  • Mercoledì 24 settembre 2014

Il discorso di Barack Obama all’ONU

Il testo dell'intervento in cui il presidente degli Stati Uniti ha chiesto all'Islam di rigettare una volta per tutte l'estremismo islamico

US President Barack Obama speaks during the 69th Session of the UN General Assembly at the United Nations in New York on September 24, 2014. AFP PHOTO/Jewel Samad (Photo credit should read JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)
US President Barack Obama speaks during the 69th Session of the UN General Assembly at the United Nations in New York on September 24, 2014. AFP PHOTO/Jewel Samad (Photo credit should read JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha rivolto oggi un discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite, riunita a New York. Nella parte iniziale del suo discorso – il testo integrale in inglese è qui – Obama ha affrontato molte questioni, dall’Ucraina all’ebola al riscaldamento globale, ma la parte centrale dell’intervento è stata la più ripresa e citata dalla stampa internazionale: Obama ha parlato dell’IS, rivolgendosi esplicitamente all’Islam e alle comunità musulmane e chiedendo loro di rigettare l’estremismo islamico. Di seguito, la traduzione italiana della parte più importante e discussa dell’intervento di Obama.

Problema dopo problema, ci rendiamo conto che non possiamo più basarci su regole scritte in un altro secolo. Se alziamo gli occhi e guardiamo oltre i nostri confini, se pensiamo globalmente e agiamo insieme, possiamo cambiare il corso di questo secolo nello stesso modo in cui i nostri predecessori riuscirono a cambiare il corso del secondo dopoguerra. Ma se guardiamo al futuro, c’è un problema che rischia di innescare un ciclo di conflitti che potrebbe far deragliare questo processo: e questo è il violento cancro dell’estremismo che ha devastato così tante parti del mondo islamico.

Naturalmente il terrorismo non è una cosa nuova. Parlando davanti a questa assemblea, il presidente Kennedy spiegò con chiarezza la questione: “Il terrore non è un’arma nuova”, disse. “Nel corso della storia è stata usata da coloro che non avevano possibilità di vincere usando la persuasione o mostrando delle alternative”. Nel Ventesimo secolo, il terrore è stato usato da gruppi diversi che non sono riusciti a ottenere il potere grazie al consenso. Ma in questo secolo ci siamo confrontati con una nuova e più letale ideologia di terrorismo, che ha dirottato una delle più grandi religioni del mondo. Grazie all’accesso a tecnologie che permettono a un piccolo gruppo di persone di causare grandi danni, queste persone hanno abbracciato un’ideologia macabra che vorrebbe dividere il mondo in fedeli e infedeli, uccidendo quanti più innocenti civili possibile e utilizzando i metodi più brutali per intimidire le persone delle loro stesse comunità.

Ho detto chiaramente che l’America non baserà tutta la sua politica estera sulla lotta al terrorismo. Piuttosto abbiamo portato avanti una campagna mirata contro al Qaida e le forze sue alleate, uccidendo i suoi leader e negandogli i rifugi sicuri su cui facevano affidamento. Allo stesso tempo abbiamo riaffermato che gli Stati Uniti non sono e non saranno mai in guerra contro l’Islam. L’Islam insegna la pace. I musulmani di tutto il mondo aspirano a vivere con dignità e giustizia. E se parliamo dell’Islam e dell’America non esiste un “noi” e un “loro”: ci siamo solo “noi”, perché milioni di musulmani americani sono parte del tessuto del nostro paese.

Quindi noi rifiutiamo ogni accenno a uno scontro tra civiltà. La fede in una costante guerra religiosa è la distorta motivazione degli estremisti che non sono in grado di costruire o creare niente e quindi diffondono solo fanatismo e odio. E non è un’esagerazione dire che il futuro dell’umanità dipende da noi e dalla nostra capacità di essere uniti di fronte a quelli che ci vorrebbero divisi lungo inesistenti linee di sette o tribù, razza o religione.

Non è solo una questione di parole. Siamo tenuti a occuparci tutti insieme del pericolo posto dai fanatici religiosi e dai fattori di contesto che ne potenziano il reclutamento. In più, questa nuova campagna contro l’estremismo va oltre i confini della mera sicurezza nazionale. Mentre eravamo impegnati a delegittimare al Qaida e a favorire una transizione verso un Afghanistan governato democraticamente, l’ideologia estremista si è spostata altrove: principalmente nel Medio Oriente e nell’Africa del nord, dove un quarto dei giovani non ha lavoro, dove cibo e acqua vengono reperiti con difficoltà, la corruzione è molto diffusa e i conflitti interni sono diventati sempre più difficili da contenere.

In quanto comunità internazionale, dobbiamo accogliere questa sfida concentrandoci attorno a quattro punti. Per prima cosa dobbiamo colpire l’organizzazione terroristica nota come ISIL, e in ultima istanza distruggerla.

L’ISIL ha atterrito chiunque abbia incrociato sulla propria strada in Iraq e Siria. Lo stupro su madri, figlie e sorelle è stato usato come un’arma di guerra. Bambini innocenti sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco. Corpi di persone morte sono stati gettati in fosse comuni. Minoranze religiose sono state affamate a morte. Nel più cruento dei crimini di guerra immaginabili, alcuni esseri umani sono stati decapitati, e la loro esecuzione è stata registrata in video la cui atrocità ha scosso la coscienza del mondo.

Nessun Dio perdona questo orrore. Nessuna causa giustifica questo tipo di azioni. Non può esserci nessun ragionamento – e nessuna negoziazione – con persone dotate di tale malvagità. L’unica lingua che queste persone comprendono è quella della forza. Per questo, gli Stati Uniti lavoreranno assieme a un’estesa coalizione di stati per smantellare questa rete di morte.

Non siamo i soli, in questa impresa. Né intendiamo mandare soldati statunitensi ad occupare un territorio straniero. Invece, sosterremo i cittadini iracheni e siriani che combattono per avere indietro le proprie comunità. Useremo la nostra potenza militare all’interno di una campagna di bombardamento per costringere l’ISIL ad arretrare. Addestreremo ed equipaggeremo gli eserciti che combattono questi terroristi sul posto. Lavoreremo per impedirgli di sostenersi economicamente, e per interrompere il flusso di soldati che si uniscono a loro o si allontanano da quei territori. Al momento, più di quaranta paesi si sono offerti di entrare in questa coalizione. Oggi chiedo al resto del mondo di aggregarsi a noi in questo sforzo. Quelli che si sono aggregati all’ISIL dovrebbero lasciare il campo di battaglia, adesso che ne hanno ancora la possibilità. Quelli che continuano a combattere per una causa d’odio scopriranno di essere sempre più soli. Questo perché noi non cederemo alle minacce: dimostreremo anzi che il futuro appartiene a quelli che costruiscono, e non a coloro che distruggono.

Secondo: è tempo che il mondo – e specialmente le comunità musulmane – rigettino esplicitamente e con forza l’ideologia di al Qaida e dell’ISIL.

È compito di tutte le grandi religioni del mondo conciliare una fede devota all’interno di un mondo moderno e multiculturale. Nessun bambino – in nessuna parte del mondo – deve essere educato ad odiare altre persone. Non dovrebbe esserci alcuna tolleranza di quei cosiddetti religiosi che spingono la gente a fare del male a delle persone innocenti solo perché sono ebree, cristiane o musulmane. È tempo per un nuovo patto fra le persone civilizzate di questo mondo per sradicare la guerra alla sua origine più profonda: la corruzione di giovani menti da parte di ideologie violente.

Questo vuol dire bloccare i fattori che alimentano questo odio. È tempo di abbandonare l’ipocrisia di quelli che accumulano benessere attraverso l’economia globalizzata, e poi riversano quei fondi a coloro che insegnano ai bambini a odiarla. Questo vuol dire reclamare lo spazio che occupano i terroristi – incluso Internet e i social network. La loro propaganda ha costretto ragazzi a fuggire dalla propria nazione per scappare a una guerra, e ha trasformato degli studenti in attentatori suicidi. Dobbiamo offrire un’opportunità alternativa. Questo vuol dire radunare assieme persone con credenze diverse. Tutte le religioni sono state attaccate al proprio interno dai fondamentalisti, a un certo punto della propria storia: e tutte le persone di fede hanno la responsabilità di attenersi al valore comune di tutte le religioni: tratta il prossimo come te stesso.

L’ideologia dell’ISIL – come quelle di al Qaida o di Boko Haram – perderà forza e morirà se sarà costantemente avversata e rifiutata alla luce del sole. Guardate al nuovo Forum for Promoting Peace in Muslim Societies, dove il primo presidente della Mauritania Sheikh bin Bayyah ha descritto così i suoi obiettivi: «Dobbiamo dichiarare guerra alla guerra, cosicché il risultato sarà la pace sopra la pace». Guardate ai giovani musulmani britannici, che hanno risposto alla propaganda dei terroristi cominciando la compagna “notinmyname”, dicendo che l’IS si sta nascondendo dietro un falso Islam. Guardate ai leader cristiani e musulmani, che arrivano nella Repubblica Centrafricana e rifiutano la violenza. Ascoltate l’imam che dice: “La politica prova a dividere le religioni nel nostro paese, ma la religione non dovrebbe essere una causa di odio, guerra o conflitto”.

Più tardi il Consiglio di Sicurezza adotterà una risoluzione per sottolineare la responsabilità degli stati nel combattere l’estremismo violento. Ma le risoluzioni devono essere seguite da impegni concreti, perché siamo noi i responsabili quando non ci dimostriamo all’altezza. Il prossimo anno dovremmo essere tutti preparati ad annunciare i passi concreti che avremo adottato per contrastare le ideologie estremiste, eliminare l’intolleranza dalle scuole, bloccare la diffusione della radicalizzazione e promuovere istituzioni e programmi che costruiscano nuovi ponti per la comprensione.

Terzo, dobbiamo agire su quel ciclo di conflitti – specialmente i conflitti settari – che creano le condizioni ai terroristi di emergere. Non è una cosa nuova, la guerra all’interno delle religioni. I cristiani sono andati avanti secoli a combattere conflitti settari. Oggi è la violenza all’interno delle comunità musulmane, che è diventata una fonte di grande miseria umana. È arrivato il tempo di riconoscere la distruzione provocata dalle “guerre per procura” e dalle campagne di terrore tra sunniti e sciiti nel Medio Oriente. Ed è tempo che i leader politici, civili e religiosi rifiutino i conflitti settari. Lasciatemi essere chiaro: questa è una battaglia in cui nessuno sta vincendo. La brutale guerra civile in Siria ha già ucciso circa 200mila persone e fatto milioni di profughi. L’Iraq è arrivato pericolosamente vicino a tornare indietro negli abissi. La guerra ha creato un terreno fertile per il reclutamento dei terroristi che inevitabilmente esportano questa violenza.

Oggi vediamo dei segni per cui questa tendenza possa essere ribaltata: un nuovo e inclusivo governo a Baghdad; un nuovo primo ministro accolto positivamente dai vicini dell’Iraq; le fazioni libanesi che ricacciano indietro coloro che vogliono cercare di provocare una guerra. Questi passi devono essere seguiti da una tregua più ampia. Da nessun’altra parte è più necessario che in Siria. Insieme ai nostri alleati, stiamo addestrando ed equipaggiando l’opposizione siriana in modo che diventi un contrappeso ai terroristi dell’ISIL e alla brutalità del regime di Assad. Ma la sola soluzione duratura alla guerra civile siriana è di tipo politico: una transizione politica inclusiva che risponda alle legittime aspirazioni di tutti i cittadini siriani, al di là dell’etnia e del credo religioso.

Le persone ciniche potrebbero ribattere che questo obiettivo è irraggiungibile. Il fatto è che non esiste altro modo per interrompere questa follia, che ci si impieghi uno o dieci anni. È tempo infatti di un’estesa negoziazione nella quale le maggiori potenze mettano sul tavolo le proprie reciproche differenze in maniera diretta, onesta e pacifica, piuttosto che facendo brandire a terzi un’arma da fuoco. Posso promettervi che gli Stati Uniti rimarranno coinvolti nella regione, e che siamo preparati per sostenere uno sforzo del genere.

Il mio quarto e ultimo punto è piuttosto semplice: i paesi del mondo arabo e musulmano devono concentrarsi sullo straordinario potenziale della loro gente, specialmente dei loro giovani.

Vorrei rivolgermi direttamente ai ragazzi che fanno parte del mondo musulmano. Arrivate da una grande storia che è stata dalla parte dell’educazione, e non dell’ignoranza; dell’innovazione, e non della distruzione; della dignità della vita, e non degli omicidi. Quelli di voi che si stanno chiamando fuori da questa tradizione non la stanno difendendo, bensì tradendo.

Avete dimostrato che quando i giovani dispongono degli strumenti per avere successo – un buon sistema scolastico, un’educazione nelle materie scientifiche, un’economia che sa coltivare la creatività e l’iniziativa personale – allora una data società è destinata a svilupparsi. Gli Stati Uniti staranno dalla parte di coloro che promuoveranno questa scelta.

Dove le donne partecipano a pieno titolo alla vita politica ed economica di una certa nazione, quella società avrà più probabilità di avere successo. È per questo che promuoviamo la partecipazione delle donne in parlamento e nei processi di pace, nelle scuole e nell’economia.

Se i giovani vivono in un posto dove le uniche due opzioni sono vivere sotto un regime dittatoriale o l’attrattiva di un’associazione estremista, nessun’azione antiterrorismo può prevalere. Ma quando a una società civile sana è permesso di fiorire – un posto in cui le persone esprimono le proprie opinioni e si organizzano pacificamente per cercare di ottenere una vita migliore – in quel modo ci si apre decisamente alla presenza di alternative al terrorismo.

Cambiamenti positivi come questo non devono necessariamente avvenire alle spese della tradizione e della fede. Lo abbiamo visto in Iraq, dove un giovane uomo ha aperto una biblioteca per i suoi coetanei. «Leghiamo ai loro cuori il passato dell’Iraq», ha detto, e «diamo loro una ragione per restare». Lo abbiamo visto in Tunisia, dove partiti secolarizzati e partiti islamisti hanno lavorato insieme per produrre una nuova costituzione. Lo abbiamo visto in Senegal, dove la società civile prospera insieme a un governo forte e democratico. Lo abbiamo visto in Malesia, dove un’imprenditoria vitale ha portato un’ex colonia tra le economie avanzate. E lo vediamo in Indonesia, dove quella che era iniziata come una transizione violenta si è evoluta in una vera democrazia.

In ultima analisi, rigettare il settarismo e l’estremismo è un compito generazionale – un compito per il popolo stesso del Medioriente. Nessun potere esterno può trasformare i cuori e le teste. L’America sarà sempre un alleato rispettoso e costruttivo. Non tollereremo i rifugi dei terroristi, non ci comporteremo come una potenza occupante. Agiremo contro le minacce alla nostra sicurezza e a quella dei nostri alleati, costruendo una cooperazione contro il terrorismo. Aumenteremo i nostri sforzi per sostenere chi combatte le ideologie estremiste, e per risolvere i conflitti settari. Ed espanderemo i nostri programmi a sostegno dell’imprenditoria, della società civile, dell’istruzione e della gioventù – perché, in ultima analisi, questi investimenti sono il migliore antidoto alla violenza.

Servirà leadership anche per affrontare il conflitto tra palestinesi e israeliani. Per quanto oscura possa oggi apparire la situazione, l’America non rinuncerà mai all’obiettivo della pace. La situazione in Iraq, Siria e Libia contraddice l’illusione di chi ha sostenuto a lungo che questo conflitto fosse la principale fonte di problemi nella regione; per troppo a lungo questo argomento è stato usato per distogliere l’attenzione delle persone da altri problemi. La violenza che ingolfa la regione oggi ha fatto sì che troppi israeliani siano pronti a rinunciare alla pace. Ma che sia chiaro: lo status quo in Cisgiordania e a Gaza non è sostenibile. Non possiamo permetterci di abbandonare questo sforzo – non mentre vengono sparati missili contro israeliani innocenti, non mentre le vite di così tanti bambini vengono spezzate a Gaza. Finché sarò presidente, ci batteremo per il principio che gli israeliani, i palestinesi, quella regione e il mondo intero saranno migliori e più giusti con due stati confinanti, in pace e in sicurezza.

Questo è quello che l’America è pronta a fare – agire contro le minacce immediate lavorando per un mondo che abbia meno il bisogno delle sue azioni. Gli Stati Uniti non si tireranno mai indietro quando si tratterà di difendere i loro interessi, ma non diminuiranno mai nemmeno i loro impegni a favore della promessa di questa istituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – il principio che la pace non è solo l’assenza della guerra ma la presenza di una vita migliore.

So bene che i nostri critici sono pronti a farci notare le volte che abbiamo fallito, le volte che non siamo stati all’altezza dei nostri ideali; so bene che l’America è piena di problemi dentro i suoi confini. È vero. In un’estate contrassegnata dalla grave instabilità in Medioriente e nell’Europa dell’est, so che il mondo si è accorto di quello che è successo in una piccola città americana – Ferguson, Missouri – dove un giovane uomo è stato ucciso e una comunità locale si è divisa. Quindi sì, abbiamo le nostre tensioni etniche e razziali. E come ogni paese lottiamo ogni giorno per adattarci ai grandi cambiamenti portati dalla globalizzazione e da come le tradizioni che ci sono care si scontrano con la diversità del presente.

Noi accogliamo con favore lo sguardo del mondo e il suo giudizio – perché quello che si può vedere nell’America è un paese che ha sempre lavorato per risolvere i suoi problemi e per rendere la sua unione “più perfetta” [come si dice nella Costituzione americana, nel passaggio “a more perfect union”, ndt]. L’America non è la stessa di 100 anni fa, di 50 anni fa o anche di 10 anni fa. Perché noi combattiamo per i nostri ideali, e siamo disposti a criticare noi stessi quando non siamo all’altezza. Perché facciamo sì che i nostri leader rendano conto delle loro azioni, e perché ci battiamo per una stampa libera e un sistema giudiziario indipendente. Perché affrontiamo le nostre differenze nello spazio aperto della democrazia, nel rispetto dello stato di diritto; trovando un posto per le persone di ogni colore e di ogni religione; credendo profondamente nelle capacità di ogni uomo e donna di cambiare in meglio le loro realtà e il loro paese.

Dopo quasi sei anni da presidente, credo che questo possa illuminare il mondo. Perché ho visto grandi cambiamenti positivi – per la pace, la libertà e le opportunità – negli occhi dei giovani che ho incontrato in tutto il mondo. Mi hanno ricordato che al di là di chi sei, da dove vieni e come appari, o il Dio che preghi, o chi ami, c’è qualcosa di fondamentale che unisce tutti. Eleanor Roosevelt, un personaggio fondamentale per le Nazioni Unite e gli Stati Uniti, ha detto una volta: “Dove cominciano, dopo tutto, i diritti umani? Vicino a casa. Così vicino e in posti così piccoli che non si vedono su nessuna mappa al mondo. Eppure quei posti sono il mondo di ogni individuo: il suo quartiere; la scuola o l’università che frequenta; la fabbrica o l’ufficio in cui lavora”.

La popolazione del mondo ci guarda, qui, e ci chiede di essere perbene, degni e coraggiosi come sono loro nelle loro vite quotidiane. Io posso garantirvi che gli Stati Uniti non si distrarranno dalle cose che vanno fatte. Siamo gli eredi orgogliosi di una storia di libertà, e siamo pronti a fare quel che è necessario per portare avanti questa eredità. Unitevi a noi in questa missione comune, per i ragazzi di oggi e quelli di domani.