• Mondo
  • Mercoledì 24 settembre 2014

Come fermare l’ebola

Senza un intervento eccezionale e internazionale i contagiati a gennaio saranno più di un milione, scrive Slate: e servono anche leader, non solo strumenti e denaro

di Jon Cohen – Slate @sciencecohen

A woman wears protective clothing during a tour of one of the Ebola Centers in Harare, Zimbabwe Tuesday, Sept. 23, 2014. Zimbabwe, which has not reported any cases of the deadly virus wreaking havoc in West Africa, is on high alert and has set up Ebola centers in order to screen people suspected of the virus. (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi)
A woman wears protective clothing during a tour of one of the Ebola Centers in Harare, Zimbabwe Tuesday, Sept. 23, 2014. Zimbabwe, which has not reported any cases of the deadly virus wreaking havoc in West Africa, is on high alert and has set up Ebola centers in order to screen people suspected of the virus. (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi)

La scorsa settimana, dopo sei mesi in cui sono stati ignorati gli appelli a riguardo di Medici Senza Frontiere, il mondo ha finalmente deciso che l’epidemia di ebola che sta interessando l’Africa occidentale richiede una controffensiva globale e coordinata. Per prima cosa, il 16 settembre il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato una grossa iniziativa del governo statunitense, che include l’invio di 3000 soldati e un finanziamento di 500 milioni di dollari proveniente dal dipartimento della Difesa. Due giorni dopo il consiglio di sicurezza dell’ONU ha unanimemente concordato che ebola ora «costituisce una minaccia per la sicurezza e la pace mondiali» e ha richiesto ai suoi stati membri di intervenire con urgenza. Diverse altre nazioni hanno promesso di inviare rifornimenti e operatori sanitari, e organizzazioni non governative come Partners in Health hanno seguito l’esempio di Medici Senza Frontiere e hanno cominciato a costruire ospedali e fornire cure.

Il numero dei casi di ebola in Liberia, Sierra Leone e Guinea, però, sta raddoppiando ogni tre settimane. A oggi i casi riportati ufficialmente sono quasi seimila, di cui circa la metà mortali: il centro per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti (cioè il Centers for Disease Control and Prevention, abbreviato in CDC) ha stimato che il numero reale di casi sia circa il triplo – cioè circa 18mila – poiché molte persone che hanno contratto il virus non hanno cercato di curarsi. In un nuovo studio il centro ha spiegato che se alle parole di molti non seguiranno i fatti, 1,4 milioni di persone saranno infettate entro la metà di gennaio del 2015. È facile intuire che rallentare la diffusione del virus richiederà uno sforzo sanitario d’emergenza diverso da tutto ciò con cui il mondo ha avuto a che fare in precedenza.

Per fermare la diffusione del virus, per prima cosa, vanno isolate tutte le persone infette. Secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) pubblicato il 23 settembre sul sito del New England Journal of Medicine, questi tre paesi africani durante la settimana dall’8 al 14 settembre hanno avuto in totale in cura 995 pazienti, a fronte di una disponibilità di soli 610 letti.

Il secondo punto fermo di ogni sforzo di contenimento deve essere rivolto al contact tracing, cioè a eseguire degli esami su tutti coloro che sono rimasti in prossimità di una delle persone infette, per poi monitorarle per 21 giorni. Prendete la situazione che avremo nel peggiore dei casi: 18mila casi fino ad oggi e altri 18mila nelle prossime tre settimane. Nel caso ogni paziente abbia avuto contatti intimi con cinque persone, vorrebbe dire trovare e monitorare per tre settimane 90mila persone.

Riuscire a fare tutto questo – e a farlo presto – richiederà uno sforzo organizzativo straordinario. Il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon ha detto alla riunione del Consiglio di sicurezza della settimana scorsa che i paesi interessati dall’epidemia «hanno chiesto all’ONU di coordinare l’intervento globale» e ha annunciato una nuova missione dell’ONU per contrastare la diffusione dell’ebola.. Il governo statunitense è quello che sta compiendo uno sforzo superiore a quello di tutti gli altri paesi. Obama ha detto: «siamo pronti ad assumere la direzione [degli sforzi] al fine di condividere competenze di cui solo gli Stati Uniti dispongono, e per mobilitare il resto del mondo nel modo che solo gli Stati Uniti sanno fare». Ma cosa significa?

L’agenzia del governo statunitense per lo sviluppo internazionale gestisce gli sforzi del dipartimento della Difesa e delle altre agenzie governative attraverso il suo staff addetto all’assistenza in caso di calamità, che a sua volta include gruppi che appartengono al dipartimento della salute – come il CDC e l’istituto nazionale sanitario – ma come anche al servizio forestale. Insomma, come ha spiegato il senatore democratico Tom Harking la scorsa settimana, si è «abbastanza sorpresi» di scoprire che nessuna singola persona nel governo americano si occupa esclusivamente di ebola.

Idealmente, dovrebbe esistere un centro di comando che permetta al personale medico e alle nazioni interessate di monitorare in tempo reale chi si sta occupando del virus, in quale posto, e con quali mezzi. Al centro dovrebbero lavorare sul posto diversi operatori sanitari e altre figure, dovrebbero essere presenti mezzi di trasporto e inventari di oggetti essenziali come kit di protezione personale, letti di ospedale, attrezzature per effettuare il test del virus, fluidi per la reidratazione, termometri e sacchi per cadaveri.

Se un centro del genere è stato messo in piedi, è fuori dalla visuale dell’opinione pubblica: e non dovrebbe andare in questo modo. La trasparenza, in questo caso, aiuterebbe le persone a lavorare assieme e costringerebbe le varie organizzazioni ad agire quanto più rapidamente possibile per rispettare i propri impegni. Risulterebbe chiaro, inoltre, cosa è stato fatto e cosa rimane da fare. Se l’ebola è un nemico, dobbiamo metterci sul piede di guerra: cioè fare tutto il possibile per ridurre le perdite e sconfiggere il nemico.

Sono state inoltre proposte delle misure straordinarie per occuparsi dei malati e per prevenire un’ulteriore diffusione. Una delle proposte più fattibili riguarda le persone che hanno contratto l’infezione e in seguito sono guarite. Già nel 431 a.C., lo storico ateniese Tucidide raccontò che le persone che erano sopravvissute alla peste riuscivano a occuparsi dei malati in maniera eccellente. Nicole Lurie, vice-segretario del dipartimento della Salute statunitense per la prevenzione e il pronto intervento, è una dei diversi medici che sospetta che le persone che siano sopravvissute all’ebola possano aver sviluppato l’immunità dal virus e che possano occuparsi delle persone infette con meno rischi per la propria salute. Lurie ha suggerito che nei paesi africani dove trovare un lavoro è difficile ed ebola è una minaccia notevole, addestrare le persone che sono sopravvissute al virus può essere una scelta che non comporterebbe rischi: «è una questione molto importante, e una cosa di cui abbiamo molto discusso». Una commissione di esperti guidata dall’OMS ha inoltre suggerito che il sangue delle persone sopravvissute possa essere utilizzato per curare quelle infette.

Mentre i trattamenti sperimentali possono essere d’aiuto, il contenimento dell’epidemia ha un bisogno immediato di un’assistenza medica di base per le persone infette. Secondo il New England Journal of Medicine il tasso di mortalità dell’epidemia è oggi del 70,8 per cento. Michael Callahan del Massachusetts General Hospital, che ha avuto in cura pazienti malati di ebola e aiuta il governo statunitense a coordinare l’intervento sanitario per contrastare il virus, ha detto che potrebbe scendere al 40 per cento se solo fossero presenti terapie, pratiche e strumenti “da avere sul posto” come l’intubazione, sostanze che ripristino immediatamente fluidi corporei e sali, una nutrizione controllata e medicine che controllino le infezioni batteriche e il vomito.

Più a lungo termine, trattamenti e vaccini ad alta tecnologia potranno essere efficaci se si dimostreranno tali in studi di piccola portata, per poi essere prodotti in quantità sufficienti. Finora due vaccini sono giunti allo stadio di sperimentazione umana su piccola scala: nel caso non si presentino seri effetti collaterali e queste sostanze si dimostreranno capaci di produrre le stesse difese che hanno protetto le scimmie durante la fase di sperimentazione in laboratorio, potranno essere messe a disposizione del personale sanitario non prima di novembre. Ma i produttori del vaccino hanno stimato che entro il 2014 avranno pronte solo 10mila dosi.

Rendere disponibile il vaccino per medici, infermieri e altre figure che hanno contatti diretti coi pazienti potrebbe contribuire alla loro sopravvivenza e attrarre un numero maggiore di persone verso un lavoro così pericoloso: ma anche le previsioni più rosee in merito dicono che questo eventuale provvedimento contribuirebbe soltanto a rallentare la diffusione del virus. Alcune persone hanno richiesto che il mondo metta da parte una gran scorta di questi vaccini il più presto possibile, come una specie di polizza assicurativa. Ma persino uno sforzo enorme per produrre più vaccini sarebbe in grado di renderne disponibili un milione di dosi in nove mesi: non abbastanza. Senza contare che la cosa richiederebbe un investimento di decine di milioni di dollari che nessuno ha ancora stanziato.

Ancora più a lato della discussione rimangono il “cocktail” di anticorpi ZMapp e la sostanza che interviene sull’RNA del virus prodotta dall’industria farmaceutica Tekmira, nonostante entrambe abbiano generato chiacchiere sovreccitate. Una decina di pazienti hanno ricevuto questi due farmaci dietro l’accordo di usarli come cure compassionevoli, che per definizione non cercano di comprendere se queste funzionino o meno. Nessuno dei due ha prodotto un briciolo di dati clinici che suggeriscano che abbiano curato qualcuno. Su entrambi ci sono grandi aspettative. Come molte altre sostanze però, per ragioni di sicurezza o efficacia, non compariranno mai sugli scaffali delle farmacie: e inoltre presentano difficoltà in fase di produzione che farànno sì che nel futuro prossimo saranno disponibili solo in limitate quantità.

Nella primavera del 1983, a nemmeno due anni dall’inizio dell’epidemia di AIDS, l’attivista e commediografo Larry Kramer scrisse un famoso saggio per il magazine LGBT New York Native intitolato “1.112 e passa”. La rabbia di Kramer per la scarsità degli interventi e la confusione che circolavano riguardo l’epidemia di AIDS lo resero il capo morale delle proteste: «se questo articolo non vi ha spaventato a morte, siamo davvero nei guai. Sono davvero arrabbiato e frustrato oltre il limite che possono tollerare la mia pelle, le mie ossa, la mia mente e il mio corpo. Di notte mi sveglio con incubi e visioni di amici scomparsi; le mie giornate sono allagate dalle lacrime che piango ai funerali e alle commemorazioni, e mentre guardo i miei amici malati. Quanto tempo deve passare prima che noi sopravvissuti ci decidiamo a contrattaccare?». L’epidemia di AIDS, al giorno d’oggi, ha ucciso 36 milioni di persone.

Oggi simili appassionate invettive stanno arrivando dai paesi dell’Africa occidentale. Siamo a 2.803 e passa: è questo il dato delle persone che sono morte per ebola, aggiornato a lunedì dall’OMS. E se vogliamo che i vivi contrattacchino e riescano a mettere fine all’epidemia di ebola il prima possibile, abbiamo bisogno di più leader morali delle proteste, che si assicurino che i governi, le organizzazioni non governative e le fondazioni mantengano le proprie promesse, che i paesi che ne hanno la possibilità non possano defilarsi senza sentirsi in colpa per non aver fatto di più, e che il mondo ascolti la voce terribile e spaventata del numero sempre più alto di Larry Kramer; gente che assiste allo scorrere del tempo, e conta ogni minuto, ogni ora, giorno e settimana in cui si perde del tempo nella battaglia contro un virus rapidissimo che sa perfettamente come ammazzarlo, il tempo.

foto: AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi

©Slate 2014