La guerra delle scimmie

Una ricerca pubblicata da Nature prova a rispondere a una delle domande più controverse dell'etologia: gli scimpanzé sono violenti per loro natura o a causa dell'uomo?

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

Nella prima sequenza del film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio una tribù di ominidi primitivi scopre come utilizzare una tibia di bufalo come utensile. L’ominide più grosso del gruppo capisce immediatamente come quel nuovo strumento lo potrà aiutare nella sua vita quotidiana e lo usa per uccidere il capo di una tribù rivale e conquistare una pozza d’acqua. Il film uscì nel 1968: Kubrick non sapeva che proprio in quegli anni l’antropologa Jan Goodall stesse dando una conferma scientifica al significato di quella sequenza. Goodall scoprì che gli scimpanzè, i primati più vicini all’uomo, sono una specie intrinsecamente violenta, capaci di portare avanti guerre e genocidi contro i membri della loro stessa specie. Le scoperte di Goodall furono all’epoca molto contestate: nei decenni successivi questa teoria è stata tra le più discusse di tutta l’antropologia e la primatologia. Mercoledì 17 settembre la rivista Nature ha pubblicato un lungo ed elaborato studio – che potete leggere qui – che cerca di dare una risposta definitiva alla questione: le scimmie sono cattive o no?

Il tema ha suscitato grandi polemiche perché ha implicazioni per la nostra specie. Gli scimpanzé sono strettamente imparentati con noi: l’antenato che abbiamo in comune visse soltanto sei milioni di anni fa. Se gli scimpanzé sono per natura portati alla guerra e all’omicidio, questo probabilmente significa che un simile impulso alla violenza è connaturato anche alla specie umana. Se invece la violenza tra gli scimpanzé è dovuta ad altri fattori (come per esempio lo stress indotto dall’essere osservati dai ricercatori), allora significa forse che la guerra e gli omicidi tra gli umani potrebbero essere causati da cose come denaro, stress o da qualunque altra costruzione sociale che se rimossa potrebbe riportarci al nostro pacifico stadio di natura. Queste critiche non sono rimaste sempre entro toni accademici. Il professor Frans de Waal, un esperto di comportamento animale, ha raccontato alla BBC che questa questione è sempre stata molto controversa e «ci sono stati molti incontri in cui la gente si urlava contro».

Il dibattito dura oramai da quasi quarant’anni, cioè da quando Goodall rivelò per la prima volta che gli scimpanzé erano in grado di compiere atti di estrema violenza nei confronti dei membri della loro stessa specie. Goodall, che oggi ha ottant’anni, è stata una delle prime antropologhe a osservare a lungo gli scimpanzé nel loro ambiente naturale, le foreste dell’Africa centrale e occidentale, dove si riuniscono in gruppi che possono contare fino a 150 individui. Gli scimpanzé si cibano principalmente di frutta che raccolgono in un determinato tratto di foresta che considerano il “loro” territorio. Visto che gli alberi da frutto sono disposti in maniera irregolare nella foresta, spesso si dividono in gruppi più piccoli per procacciarsi il cibo. Prima di Goodall, gli scienziati avevano assistito a diversi incontri tra squadre di raccoglitori appartenenti a gruppi diversi. Questi incontri in genere si trasformavano rapidamente in “battaglie” coreografiche in cui gli scimpanzé fanno un gran rumore, scuotono i rami degli alberi, lanciano oggetti, si minacciano, ma dopo qualche decina di minuti il gruppo meno numeroso si ritira senza combattere. L’osservazione di questi scontri fece pensare che gli scimpanzé fossero una specie sostanzialmente pacifica.

Goodall confermò che quando si incontravano gruppi di dimensioni simili quella che cominciava era in sostanza una battaglia teatrale senza morti e feriti. Ma quando un gruppo numeroso incontrava un gruppo più piccolo o un individuo isolato le cose andavano molto diversamente. Non c’erano urla o scuotimento di rami. Gli scimpanzé del gruppo più grande si avvicinavano in maniera furtiva e poi assalivano l’intruso bloccandogli mani e piedi, azzannandogli la gola e strappandogli i genitali. A volte sembrava quasi che la sofferenza della vittima fosse prolungata appositamente, mentre i suoi resti smembrati venivano sparsi sul luogo dello scontro.

Goodall osservò anche che i gruppi più grandi formavano vere e proprie pattuglie incaricate di sorvegliare il territorio e dare la caccia agli intrusi isolati. Imboscate e assassinii casuali, però, non esauriscono il repertorio delle violenze compiute dagli scimpanzé. Almeno in un caso altri scienziati documentarono come un gruppo di scimpanzé avesse dato la caccia in maniera sistematica a tutti i maschi di un gruppo rivale, portando a termine quello che se fosse stato compiuto dagli esseri umani avremmo definito “un genocidio”. Goodall scoprì che gli scimpanzé sono violenti anche all’interno dei loro stessi gruppi. Bande di maschi uccidono maschi insubordinati o i cuccioli di maschi più deboli. Femmine più grandi con l’aiuto di maschi danno la caccia, uccidono e a volte mangiano i cuccioli delle femmine più deboli.

Quando Goodall pubblicò per la prima volta le sue osservazioni, molti scienziati criticarono le sue ricerche: nei decenni successivi la polemiche continuarono sia contro Goodall sia contro gli altri ricercatori giunti alle stesse conclusioni. Secondo la maggior parte dei critici, i risultati di queste ricerche erano viziati dal fatto che i primatologi, per studiare gli scimpanzé, li rifornivano di cibo creando le condizioni per una competizione selvaggia e violenta. Secondo altri, la ragione era l’esatto opposto: la deforestazione stava riducendo le risorse a disposizione degli scimpanzé, costringendoli ad aver comportamenti violenti per accaparrarsi il cibo sempre più scarso.

Lo studio di Nature, secondo i suoi autori, smentisce definitivamente queste critiche e mostra le prove che l’aggressività tra scimpanzè non è correlata con l’intervento umano. Lo studio è stato realizzato da trenta scienziati che hanno esaminato i dati di 18 comunità diverse di scimpanzé, raccolti in un totale combinato di 426 anni di ricerca. Gli scienziati hanno dimostrato che delle 152 uccisioni di scimpanzé documentate, moltissime non avevano nulla a che fare con la presenza dell’uomo.

Questo significa che anche noi umani siamo per sempre condannati a farci la guerra e a ucciderci a vicenda? La pensa così Brian Ferguson, direttore del dipartimento di Peace and Conflict Studies alla Rutgers University di Newark, negli Stati Uniti, che ha spiegato al Boston Globe il punto di vista di molti scienziati ostili alla teoria della “violenza naturale”: «Se le persone pensassero che è nella nostra natura fare la guerra, che siamo in qualche misura costretti dall’evoluzione a uccidere membri degli altri gruppi, questo ci porterebbe a un atteggiamento fatalista: non possiamo cambiare la nostra evoluzione».

Molti scienziati non sono d’accordo. Per esempio, secondo l’antropologo Richard Wrangham, un allievo di Goodall, la violenza tra gli scimpanzé è semplicemente un’efficace strategia evolutiva. Per comprendere cosa significhi “efficace” basta dare un’occhiata più ravvicinata alle tattiche di guerra degli scimpanzé: spettacoli coreografici e incruenti quando si incontrano due gruppi di dimensioni simili, e attacchi spietati quando l’avversario viene trovato in sostanziale inferiorità numerica. Il primo caso somiglia molto alla maggior parte degli scontri rituali tra numerose specie di mammiferi: i leoni marini si azzannano ferendosi; leoni e lupi ruggiscono e ringhiano fino a che uno dei due contendenti non si ritira intimidito; i montoni si prendono a cornate. Questo tipo di scontri raramente termina con gravi ferite o con la morte di uno dei due contendenti e per una ragione molto semplice: uno scontro tra due membri della stessa specie è in genere un scontro ad armi pari, in cui l’esito è difficilmente prevedibile. Non è molto vantaggioso in queste circostanze cercare di combattere sempre all’ultimo sangue, perché il rischio di trovarsi di fronte ad un nemico più forte è molto alto.

Gli scimpanzé però vivono in un’ambiente particolare, come abbiamo visto. A volte si suddividono in gruppi molti piccoli per andare a cercare cibo o quando questo è molto scarso singoli scimpanzé sono costretti a mettersi alla ricerca, per coprire un raggio di territorio più ampio. Inoltre gli scimpanzé hanno legami sociali abbastanza forti da permettergli un buon grado di organizzazione. Quando uno di questi piccoli gruppi o un individuo singolo incontra un gruppo molto più forte, allora la prudenza che suggerisce di non combattere contro membri della propria specie cessa di essere una buona strategia. Attaccare in cinque un unico avversario minimizza i rischi e assicura diversi vantaggi. Il primo è che diminuendo il numero dei membri dell’altro gruppo si aumenta la possibilità di vincere gli scontri successivi. Più scontri si vincono, più si può ampliare il proprio territorio e disporre così di più cibo che a sua volta permette di aumentare la progenie del proprio gruppo. Sterminando un gruppo rivale, gli scimpanzé possono anche “rapire” le loro femmine, aumentando così in maniera ancora maggiore le possibilità di riproduzione. In altre parole, a queste condizioni, la guerra è la migliore strategia per gli individui e per i gruppi per assicurarsi la propria proliferazione.

Questa violenza, però, è dettata dalle condizioni particolari nelle quali si trovano gli scimpanzé e in cui, a volte, si sono trovati gli esseri umani. La leggenda del ratto delle sabine, per esempio, potrebbe funzionare benissimo se al posto di romani e sabini mettessimo due gruppi rivali di scimpanzé. Cambiate queste condizioni, però, cambia anche il comportamento. Alcuni scienziati, come lo psicologo evoluzionista Steven Pinker, sostengono che questa teoria è esattamente il contrario del fatalismo secondo cui se gli scimpanzé sono intrinsecamente violenti anche noi lo saremo per sempre. Se la violenza è una risposta strategica a condizioni particolari, allora cambiate le condizioni la quantità di violenza può diminuire di conseguenza e un’occhiata anche superficiale alla gran parte del mondo abitato dagli essere umani ci mostra che viviamo in condizioni molto diverse da quelle degli scimpanzé o di Romolo e Remo.