L’altra storia dello United 93

La mattina dell'11 settembre 2001 due piloti vennero incaricati di abbattere il quarto aereo dirottato, ma non avevano armi a bordo: dovevano suicidarsi

di Steve Hendrix - Washington Post

Questa settimana il Washington Post ha ripubblicato un articolo del settembre 2011 in cui raccontò la storia dei due piloti incaricati di abbattere il volo United 93, il quarto aereo dirottato la mattina dell’11 settembre 2001: quello che alla fine si schiantò su un campo in Pennsylvania grazie alla ribellione dei passeggeri.

Nella tarda mattinata del martedì che cambiò tutto, il tenente Heather “Lucky” Penney era sulla pista di decollo della base aerea di Andrews pronta a decollare. Aveva una mano sulla cloche di un caccia F-16 e le era stato dato un ordine: abbattere il volo aereo United Airlines 93, il quarto aereo dirottato quel giorno, che sembrava diretto verso Washington. Penney, uno dei primi due piloti da combattimento a decollare quella mattina, aveva l’ordine di fermarlo. Quello che non aveva, mentre saliva nel cielo cristallino, erano munizioni. O missili. O qualsiasi altra cosa da lanciare contro un velivolo ostile. Eccetto il suo aeroplano. Quindi quello era il piano.

Gli attacchi a sorpresa si stavano susseguendo a un ritmo più veloce di quanto, in quell’epoca innocente, l’aviazione riuscisse ad armare un solo aeroplano. Quindi Penney e il suo ufficiale comandante salirono in volo con l’obiettivo di far schiantare il loro jet direttamente contro un Boeing 757. «Non avremmo potuto abbattere quell’aereo con le nostre armi: avremmo dovuto speronarlo», ha ricordato Penney: «La nostra missione prevedeva che io diventassi un pilota kamikaze». Per anni Penney, che faceva parte della prima generazione di piloti da combattimento donna del paese, non ha dato interviste su quella esperienza dell’11 settembre 2001 (che incluse anche scortare l’Air Force One, l’aereo del presidente degli Stati Uniti, nello spazio aereo improvvisamente molto sorvegliato di Washington).

Dieci anni dopo, Penney ha deciso di riflettere su uno degli episodi meno noti di quella mattina così spesso raccontata. E cioè su come il primo contrattacco progettato dall’esercito americano contro le forze che avevano attaccato gli Stati Uniti era a tutti gli effetti una missione suicida. «Dovevamo proteggere lo spazio aereo in ogni modo possibile», ha raccontato nel suo ufficio della Lockheed Martin, dove lavora come manager nel programma F-35. Penney oggi è un maggiore e non è più un pilota da combattimento, ma è ancora una biondina con un sorriso scintillante. Negli anni ha volato in Iraq e ha prestato servizio come pilota della Guardia Nazionale, soprattutto trasportando VIP su un Gulfstream militare. Ma nessuna delle sue migliaia di ore di volo è comparabile con quella sortita che sembrava essere un volo di sola andata verso una collisione aerea.

Penney era una novellina, nell’autunno del 2001, ed era anche il primo pilota femmina di F-16 che il 121esimo squadrone caccia della Guardia Nazionale di Washington D.C. avesse mai avuto. Era cresciuta annusando carburante per aerei: suo padre volava sui caccia in Vietnam e continua a volare anche oggi. Penney prese la licenza da pilota mentre si stava laureando in letteratura americana. Progettava di diventare un’insegnante, ma mentre studiava per un corso di letteratura americana il Congresso aprì per la prima volta l’aviazione da combattimento alle donne. Penney fu tra le prime a partecipare: «Mi arruolai immediatamente. Volevo diventare un pilota di caccia come mio padre».

In quel giovedì aveva appena terminato due settimane di addestramento al combattimento aereo in Nevada. Si trovava con i suoi compagni in una sala della base aerea di Andrews quando qualcuno si affacciò alla porta e disse che un aereo aveva colpito il World Trade Center a New York. Quando accadde la prima volta immaginarono fosse un pazzo su un piccolo Cessna. Quando successe di nuovo capirono che era la guerra.

La sorpresa fu completa. Nella monumentale confusione di quelle prime ore era impossibile ottenere ordini chiari. Non c’erano aerei pronti e i caccia erano ancora caricati con i proiettili a salve per le missioni di addestramento. Prima di quella mattina tutti gli occhi erano ancora puntati verso il circolo polare artico: la rotta da cui, durante la guerra fredda, si credeva sarebbero arrivati i missili o gli aerei sovietici. «Non percepivamo minacce alla nostra sicurezza all’epoca, soprattutto non immaginavamo potessero provenire dagli stessi Stati Uniti», ha racconta il colonnello George Degnon, vicecomandante del 113esimo stormo della base aerea di Andrews. «Ci sentivamo impotenti ma cercammo di fare tutto quello che era possibile per armare gli aerei e mandarli in aria. Fu straordinario vedere quelle persone reagire all’emergenza». Le cose oggi sono differenti, ha spiegato Degnon: almeno due aerei sono pronti al decollo e armati in ogni momento, con i piloti sempre a pochi metri di distanza.

Dopo i primi due, un terzo aereo colpì il Pentagono. Quasi immediatamente arrivò la notizia che un quarto aereo era stato dirottato e forse ce ne erano degli altri in arrivo. I jet sarebbero stati armati entro un’ora ma qualcuno doveva partire subito, armi o non armi. «Lucky, tu verrai con me», gridò il colonnello Marc Sasseville. Si stavano preparando quando Sasseville, mentre si infilava nella tuta, guardò Penney negli occhi: «Io punterò alla cabina di pilotaggio», disse Sassivile. Penney rispose senza esitare: «Io prenderò la coda». Era un piano e un patto. Con quelle poche parole avevano deciso quale parte del volo United 93 avrebbero preso di mira con i loro aerei.

Penney non era mai decollata per una missione d’emergenza. Normalmente la routine prima del volo durava mezz’ora di controlli metodici. Penney cominciò automaticamente a eseguire la lunga procedura. «Lucky, che stai facendo? Porta il culo a bordo e partiamo!», le gridò Sasseville. Penney salì sull’aereo, accese il motore e gridò al personale di terra di togliere i freni. Mormorò la preghiera dei piloti – «Signore, non farmi mandare tutto a puttane» – e seguì Sasseville nel cielo. Passarono velocemente sopra il Pentagono fumante, proseguirono a nordovest a più di 400 miglia all’ora, volando bassi e scrutando l’orizzonte. Il suo comandante in quei momenti ebbe il tempo di pensare quale fosse il posto migliore dove colpire il nemico.

«Non ci addestriamo ad abbattere aerei di linea», ha raccontato Sasseville, ora in servizio al Pentagono. «Se colpisci solo il motore, l’aereo può ancora planare ed essere guidato sul bersaglio. Così pensai di colpire la cabina di pilotaggio o le ali». Pensò anche al suo sedile eiettabile. Ci sarebbe stato un istante per attivarlo subito prima dell’impatto? «Pensai di provare a fare entrambe le cose contemporaneamente: colpire l’aereo ed eiettarmi», ha raccontato: «Probabilmente non avrebbe funzionato, ma era quello che speravo di fare». Penney si preoccupava di cosa sarebbe potuto accadere se avesse cercato di salvarsi prima di colpire il bersaglio. «Se mi fossi eiettata e il jet fosse passato oltre senza colpire il bersaglio…», distolse il pensiero dal fallimento che la spaventava più della morte.

Ma Penney non dovette morire. Non dovette abbattare un aereo pieno di ragazzi, agenti di commercio e fidanzate. Lo fecero da soli. Ci sarebbero volute ore perché Penney e Sasseville venissero a sapere che lo United 93 era già precipitato in Pennsylvania, a causa di una rivolta degli ostaggi, desiderosi di fare quello che i due piloti volevano fare: tentare qualsiasi cosa per fermare quell’aereo. «I veri eroi sono i passeggeri del volo 93, che si sacrificarono volontariamente», ha raccontato Penney: «Io sono stata soltanto un involontario testimone della storia». Oggi Penney è una madre single di due ragazze. Ama ancora volare. E ogni tanto ripensa ancora a quello straordinario volo di dieci anni fa: «Pensavo davvero che sarebbe stata la mia ultima volta sulla pista di decollo. E se avessimo fatto le cose come andavano fatte, questo sarebbe stato il risultato».