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  • Domenica 7 settembre 2014

Perché il fondamentalismo islamico ha così successo nei paesi arabi?

Secondo l'esperto Fareed Zakaria c'entrano la fragilità politica degli stati arabi e la mancanza di vere identità nazionali

di Fareed Zakaria – Washington Post @FareedZakaria

Demonstrators chant pro-al-Qaida-inspired Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL) as they carry al-Qaida flags in front of the provincial government headquarters in Mosul, 225 miles (360 kilometers) northwest of Baghdad, Iraq, Monday, June 16, 2014. Sunni militants captured a key northern Iraqi town along the highway to Syria early on Monday, compounding the woes of Iraq's Shiite-led government a week after it lost a vast swath of territory to the insurgents in the country's north. (AP Photo)
Demonstrators chant pro-al-Qaida-inspired Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL) as they carry al-Qaida flags in front of the provincial government headquarters in Mosul, 225 miles (360 kilometers) northwest of Baghdad, Iraq, Monday, June 16, 2014. Sunni militants captured a key northern Iraqi town along the highway to Syria early on Monday, compounding the woes of Iraq's Shiite-led government a week after it lost a vast swath of territory to the insurgents in the country's north. (AP Photo)

Guardando i raccapriccianti video delle esecuzioni, ho provato un’emozione simile a quella che provai dopo l’11 settembre. Le barbarie sono fatte apposta per provocare rabbia, e funziona. Ma nel settembre del 2001, mi sono anche chiesto «Perché ci odiano?». Allora provai a rispondere a questa domanda in un articolo per Neewsweek, che colpì particolarmente i lettori. Oggi sono andato a rileggere quell’articolo, per vedere cosa avevo capito, cosa no, e cosa ho imparato negli ultimi 13 anni.

Non è soltanto al Qaida. Iniziavo notando che il terrorismo islamico non riguarda solamente un ristretto gruppo di nichilisti. C’è una più ampia cultura che è stata complice del terrorismo o che comunque non ci si è opposta. Alcune cose sono migliorate negli ultimi anni, ma non abbastanza.

Non è un problema dell’Islam ma un problema arabo. Nei primi anni 2000 l’Indonesia era una delle nostre preoccupazioni principali a causa di una serie di attentati successivi all’11 settembre. Negli ultimi 10 anni, tuttavia, il fondamentalismo islamico e il jihad non hanno avuto molto successo in Indonesia, la più grande nazione islamica del mondo, più grande di Siria, Iraq, Egitto, Libia e paesi del Golfo messi insieme. O guardate l’India, un paese che è accanto al quartier generale di al-Zawahiri in Pakistan, ma dove solo un numero ristretto dei 165 milioni di abitanti musulmani sono membri di al Qaida. Zawahiri ha annunciato un nuovo sforzo per provare a reclutare musulmani indiani, ma sospetto che fallirà.

La decadenza politica araba. Il punto fondamentale del mio articolo era che la ragione principale per cui il mondo arabo produce il fanatismo è la sua situazione politica stagnante. Nel 2001 quasi ogni parte del mondo ha fatto progressi significativi: l’Europa dell’Est, l’Asia, l’America Latina e anche l’Africa hanno avuto diverse elezioni libere. Il mondo arabo invece è rimasto impermeabile a tutto questo. Nel 2001 la maggioranza degli arabi erano meno liberi di quanto non lo fossero nel 1951. L’unico aspetto della vita che i diversi dittatori del mondo arabo non potevano eliminare era la religione, quindi l’islam è diventato il linguaggio delle opposizioni politiche. Quando le dittature secolari e  occidentalizzate del mondo arabo sono fallite – politicamente, socialmente ed economicamente – i fondamentalisti hanno detto al popolo: “l’islam è la soluzione”. Il mondo arabo è stato lasciato con le dittature da una parte e dei gruppi di opposizione profondamente illiberali dall’altra: Hosni Mubarak o al Qaida. Più duri erano i regimi, più violente le opposizioni. Questo cancro era più profondo e distruttivo di quanto avessi compreso. Nonostante la rimozione di Saddam Hussein in Iraq e la Primavera Araba, questa dinamica tra dittatori e jihadisti non si è rotta.

Prendete la Siria, dove, fino a poco tempo fa, Bashar al-Assad in realtà aiutava lo Stato Islamico, comprandogli petrolio e gas e bombardando i suoi oppositori, l’Esercito libero siriano, quando si combattevano l’un l’altro. Assad giocava al vecchio gioco dei dittatori, costringendo la sua gente a una scelta estrema: o me o l’IS. E molti siriani (la minoranza cristiana, per esempio) scelsero lui. La più grande battuta d’arresto si è verificata in Egitto, dove un movimento islamista non violento ha preso il potere e ha sprecato l’occasione spingendosi troppo oltre. Ma non contento di lasciare che i Fratelli Musulmani perdessero alle elezioni, l’esercito li ha deposti con la forza ed è tornato al potere. Ora l’Egitto è uno stato di polizia più brutale di quando c’era Mubarak. La Fratellanza Musulmana è stata bandita, molti dei suoi membri uccisi o imprigionati, gli altri costretti alla clandestinità. Speriamo che, tra dieci anni, non ci ritroveremo a discutere sulle cause dell’ascesa al potere dell’IS in Egitto.

Che cosa non avevo considerato in quel saggio di 13 anni fa? La fragilità di questi paesi. Non avevo intuito che se i regimi dittatoriali si fossero indeboliti gli stati sarebbero potuti crollare, e che sotto gli stati non c’era nessuna società civile, e neanche vere nazioni. Una volta che il Medioriente fosse sprofondato nel caos, la gente non si sarebbe identificata con le proprie identità nazionali – iracheni, siriani – ma con altre, ben più antiche: sciiti, sunniti, curdi e arabi. Avrei dovuto ascoltare di più il mio mentore all’università, Samuel Huntington, che una volta spiegò che gli americani non capivano che, nei paesi in via di sviluppo, la chiave non è il tipo di governo – comunista, capitalista, democratico, dittatoriale – ma il grado di un governo. E l’assenza di governo è quello a cui assistiamo in questi giorni, dalla Libia all’Iraq alla Siria.

Alcuni sostenitori dello Stato Islamico con delle bandiere di al Qaida a Mosul, in Iraq, il 16 giugno 2014. (AP Photo)